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La loro magia è nata nell'era pre-social ma non sottovalutiamo l’inventiva delle bambine

Ieri sera avrei voluto fare un giro al Winx Party, il ventennale delle fatine più famose dei cartoons che si è celebrato in piazza Malatesta. Malgrado la mia prole sia stata piuttosto indifferente alla Winx-mania che impazzava durante la loro infanzia, e all’epoca tutta la saga di Alfea ideata da Iginio Straffi mi desse piuttosto sui nervi (a casa mia si preferivano le Witch della Disney, nate qualche anno prima), oggi mi ritrovo a rimpiangere Bloom, Flora, Tecna e compagnia. Non mi dànno più tanto fastidio i loro outfit succinti e la loro fisionomia impossibilmente affusolata e longilinea, un modello fisico irraggiungibile che poteva gettare nell’animo delle piccole fan i semi dell’insoddisfazione per il proprio corpo. Oggi le ragazzine vorrebbero assomigliare a influencer ritoccate dal chirurgo e corrette dai filtri fino a risultare anche più irreali di un cartone animato. Almeno le Winx vivevano avventure fantastiche in un mondo alternativo, e non si limitavano a ballicchiare e a esibire il loro shopping nei video su TikTok. E comunque anche le Barbie, le adorate compagne della mia infanzia, avevano corpi da pin-up in miniatura, cosce lunghe e seni prosperosi non certo fatti per educare le fanciulle alla modestia, per non parlare dello

I neuroni-specchio ci permettono di empatizzare col prossimo, quando non funzionano viviamo male e facciamo vivere male quanti ci stanno intorno

Bella cosa i neuroni-specchio, che ci permettono di empatizzare col prossimo e di imparare da lui imitandolo. Quando non funzionano viviamo male e facciamo vivere male quanti ci stanno intorno a causa dell’incapacità di capire cosa provano e metterci in relazione con loro. Ma anche quando funzionano troppo possono darci qualche noia – io, ad esempio, devo avere mille cautele rispetto ai prodotti dell’immaginario (film, serie, libri) contenenti scene di violenza, di crudeltà e di sofferenza fisica. Mi ripeto che è solo finzione, ma i miei neuroni specchio se ne fregano e devo interrompere la lettura, chiudere gli occhi o fare avanti veloce fino alla prossima scena con gente calma e incolume. Figurarsi quando la scena di sofferenza è dal vivo e coinvolge dei bambini. Disclaimer: non voglio parlare di violenza domestica o di abusi da Telefono Azzurro, atti orribili che si consumano all’interno delle case, lontano da occhi estranei; questa è una rubrica leggera, dove accostare il grave al futile è solo un espediente retorico per strappare un sorriso. Ma i miei neuroni-specchio sono delle pappemolle e prendono tutto molto sul serio, specie quando si tratta di pianto infantile. Questa debolezza in passato mi ha reso una madre lassista, perché

Nessun eletrodomestico può essere in questo momento più utile o allao stesso tempo più dannoso

Avete mai riflettuto sul senso della parola “elettrodomestici”? Vuol dire proprio quello: elettro-domestici, cioè domestici ad alimentazione elettrica. Macchine che svolgono funzioni un tempo affidate, da chi poteva permetterselo, a personale di servizio in carne e ossa. Non c’è più la servitù di una volta, in compenso oggi ce l’abbiamo tutti, solo che non porta più il grembiule, non va mai a trovare la famiglia al paesello e quando si guasta bisogna chiamare un tecnico. Per le donne occidentali, soprattutto quelle delle classi meno abbienti, che i lavori di casa più pesanti dovevano farli da sole in casa propria e/o farlo per i ricchi, è stata una liberazione dalla schiavitù, con la lavatrice nel ruolo di Abramo Lincoln. Ci sono solo due o tre generazioni fra noi e le donne che dovevano lavare tutto il bucato a mano, nel mastello, al fiume o al lavatoio, con il ranno o la lisciva, la cui preparazione era un lavoro supplementare. E per bucato si intende biancheria, camicie e mutande di gente che si lavava pochino, poiché per la stragrande maggioranza degli italiani l’igiene personale era infinitamente meno comoda e agevole rispetto a oggi. Morale, nel pantheon di mia nonna (nata contadina, servetta a

Un meraviglioso diorama dell’umanità che abita il nostro pianeta, stupefacente tanto nella sua varietà quanto nell’entusiasmo e nella voglia di partecipare

Lo spirito olimpico, che per quindici giorni vede esaltati valori che in genere non coltiviamo, assomiglia per certi versi allo spirito natalizio, l’overdose di buoni sentimenti che chiude ogni anno. Risultato, alla chiusura dei Giochi, ci ritroviamo, ancora imbevuti di afflati cosmopoliti, ecumenici e decoubertiniani, a stilare una lista di propositi virtuosi, proprio come succede a San Silvestro. Le Olimpiadi sono un meraviglioso diorama dell’umanità che abita il nostro pianeta, meravigliosa e stupefacente tanto nella sua varietà quanto nell’entusiasmo e nella voglia di partecipare. Per questo una delle prime cose che ci ripromettiamo è un bel ripasso di geografia, per collocare sul mappamondo mentale paesi di cui avevamo dimenticato o sempre ignorato l’esistenza, e che abbiamo scoperto durante le gare. Ad esempio Saint Lucia, che non è solo la notte più lunga che ci sia, ma anche un’isoletta caraibica grande più o meno come Modena e che a Parigi ha guadagnato un oro e un argento, molto più di paesi ben più grandi e noti alle cronache. Quello scoglietto delle Piccole Antille deve avere davvero qualcosa di speciale, visto che è anche il paese con la più alta densità di premi Nobel rispetto alla popolazione: uno per l’Economia (W. Arthur Lewis nel

Fra l'altro il detto risale alla notte dei tempi ma con tutt'altro significato

C’è qualcosa di più banale che scegliere come incipit il primo articolo del mese di agosto il vecchio adagio “agosto, moglie mia non ti conosco”? Sì, farlo seguire su una riflessione sulla corna estive, corroborata dalle notizie sul superlavoro delle agenzie investigative nel mese consacrato alle ferie e, secondo la tradizione, all’adulterio. Una tradizione che mostra la corda, come tutte quelle legate ai mesi: quello pazzerello non è più solo marzo, la follia ha contagiato pure febbraio e aprile, che ha passato la vecchia nomea “ogni goccia un barile” a maggio, diventato il mese delle alluvioni. “Agosto moglie mia non ti conosco” (in senso biblico), evoca le vacanze della seconda metà del Novecento, quattro settimane di separazione fra coniugi, weekend esclusi, lei sotto l’ombrellone a flirtare con il nerboruto bagnino o con il romantico turista capellone nordico, lui in città ad amoreggiare con la vicina, con «la cameriera veneziana che sta sempre in sottoveste sul balcone a canticchiar», come cantava Domenico Modugno, oppure a concedersi proibite notti brave al night. Ma chi se le può permettere, quattro settimane consecutive di ferie? E in quante famiglie ci sono mogli che possono concedersi un mese di ozio al mare o in montagna sovvenzionato dal

E se la cerimonia ha fatto incavolare Matteo Salvini significa che era tutto okay

Chissà se gli olimpici riminesi in trasferta a Parigi – Lucia Bronzetti, Alessio Crociani e Giulio Ciotti, l’allenatore di Gimbo Tamberi – hanno percepito un’aria di casa nella cerimonia d’apertura di venerdì scorso. Io vedevo Fellini spuntare da tutte le parti. Si trattava di un omaggio alla storia della Francia e alla magia di Parigi, ma avrebbe potuto benissimo essere un commosso tributo al nostro Federico, una colossale e iperbolica carrellata di citazioni dei suoi film più iconici, da Giulietta degli spiriti al Casanova passando per il Satyricon, con un pizzico di Città delle donne e di Ginger e Fred. Per quanto ne so, l’unica cosa che lega Fellini alle Olimpiadi è una coincidenza: La dolce vita vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1960, lo stesso anno dei Giochi di Roma, considerati fra i più belli della storia, quelli di Abebe Bikila, Wilma Rudolph, Livio Berruti e del debutto di Cassius Clay. Ma lo spettacolo e la meraviglia hanno un’alchimia che va oltre il tempo: il giovane direttore artistico di Parigi 2024, l’attore e regista teatrale Thomas Jolly, si porta dentro con tutta evidenza l’imprescindibile lezione felliniana e, consapevolmente o no, l’ha applicata su vasta scala, rappresentando la grandeur come

Leoni da tastiera, sfigati per definizione, temono di passare per gente semplice che in vacanza vuole solo spaparanzarsi sul lettino

Mi è difficile non fare la ola alla notizia che il sindaco di Rimini intende scendere in campo contro gli haters del mare Adriatico, quelli che, da quando esistono i social, ogni estate che manda Dio si fanno un dovere di parlarne male. Me li immagino come i poveracci “vorrei-ma-non posso” di certe vecchie commedie all’italiana, che non potendo permettersi le ferie se ne stanno chiusi in cantina per far credere ai vicini di essere partiti: esprimendo sui social disprezzo per il mare del turismo popolare sperano di dare l’idea di essere abituali frequentatori di spiagge più esclusive e scenografiche, Salento come minimo. Il cliché dell’alto Adriatico sporco e lutulento ormai si è così incistato nella testa dell’italiano medio che chi sceglie la Romagna si sente in dovere di precisare, in tono di scusa, che lo fa “nonostante il mare”: ci va per l’ospitalità, l’organizzazione, il cibo, la vicinanza, i servizi, i prezzi tutto sommato contenuti rispetto ad altre località, non certo per quell’acqua che si ostina a non sembrare quella di Grace Bay. Io stessa ho dovuto bacchettare un amico che aveva corredato i tweet e le immagini di un piacevole weekend a Rimini con l’inevitabile “il mare è quello

E pensare che con una sceneggiatura del genere Tonino Guerra magari ci avrebbe vinto un Oscar

Quando la realtà ti serve su un piatto d’argento una trama succulenta, pronta per essere trasformata in un progetto per Netflix e piattaforme assortite, bisognerebbe gettarcisi a pesce. E la guerra fra Pennabilli e i vampiri, già rimbalzata sui quotidiani nazionali, è uno spunto che vale oro perché intreccia horror, politica, commedia sullo sfondo di un pittoresco borgo italiano, ingredienti che hanno fatto il successo di innumerevoli film e serie. Agli sceneggiatori si richiederebbe uno sforzo minimo, perché i personaggi sono già belli e pronti: il leader della setta dei Real Vampires, il sindaco-sceriffo fascistoide che non vuole fare del suo comune una succursale della Transilvania, il pugnace regista deciso a realizzare un film vampiresco proprio nell’ameno paesino caro a Tonino Guerra, e, a rappresentare la voce della ragione e della scienza, il direttore del Museo del Calcolo e della Matematica, ovviamente ostile agli eredi contemporanei di Dracula. Manca solo una presenza femminile, indispensabile in tutte le storie di vampiri: se la cronaca non la offre, dovranno pensarci gli autori, cambiando genere a qualcuno dei protagonisti o aggiungendo ex novo un’anemica eroina da salvare, un’affascinante vampira, un’inquietante badessa custode di inconfessabili segreti o la classica reporter d’assalto venuta a infiltrarsi tra i

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