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11 novembre 1255 – Il vescovo di Rimini vende Santarcangelo e fa un pessimo affare


11 Novembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

La storia medievale è fitta di contese, come è noto, fra città e signorie feudali, fra il potere civile e quello ecclesiastico. Battaglie che si combattevano anche con le armi, ma principalmente davanti a dei giudici a suon di bolle, diplomi, querele, diffide. E siccome scripta manent, i fascicoli di queste cause sono la principale fonte da cui possono attingere gli storici per ricavare le informazioni più disparate.

E’ il caso di una lunga querela che Ambrogio, vescovo di Rimini, intenta nel 1272 contro il Comune della sua città. Più precisamente, il presule rispolvera una causa che si trascinava da decenni e che riguardava la sovranità su diversi castelli del contado un tempo sottoposti alla Curia riminese e ora controllati dal Comune: San Giovanni in Galilea, Ripa Massana (presso Tavoleto), Valle Avellana, “Inferno” (Onferno), Saludecio, “Lauditorio” (Auditore), Castelnuovo (presso Auditore), Piandicastello (presso Mercatino Conca): tutti in Val Conca. E il più importante, nella direzione opposta: Santarcangelo.

Per tutti questi beni, in realtà, 17 anni prima l’allora vescovo Giacomo e il Comune di Rimini erano arrivati ad un accomodamento, con il secondo a versare una somma al primo pur di mantenere un possesso in origine certamente usurpato, ma che si manteneva ormai nei fatti da moltissimo tempo.

Ora però Ambrogio non si ritiene soddisfatto di quel compromesso e fa notare che comunque, come si direbbe oggi (o si è sempre detto da che fu inventata la burocrazia), “manca un timbro”: e cioè l’approvazione del Pontefice. Peggio ancora: Clemente IV, papa regnante, aveva scritto una lettera ad Ambrogio proprio per sollecitarlo a recuperare i beni originari della mensa vescovile riminese.

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Le lagnanze del vescovo si appuntano soprattutto sul boccone più grosso del piatto: Santarcangelo. Si ricostruiscono gli infiniti misfatti dei Riminesi, che verso il 1250 avevano, come scrive Luigi Tonini riportando le tesi episcopali, «occupato il Castello, e demolito Palazzo e Girone, portando via quanto v’era dentro; e che da dodici anni ebber tolte le Fiere o i mercati, che da antichissimo tempo solevano farsi presso il Castello nel Campo della Chiesa riminese, donde questa ne traeva comodo ogni anno per mille lire di Ravenna».

E commenta lo storico riminese: «Vedi quanto antiche le Fiere di Santarcangelo!».

E proprio il giorno della fiera di San Martino il predecessore del vescovo Ambrogio aveva firmato la transazione ora ritenuta inaccettabile: «Il vescovo Giacomo l’11 novembre 1255 per sole tremila lire ebbe rinunciato a quei diritti e possedimenti, non che alle giurisdizioni temporali in civile criminale, e agli altri proventi che traeva dalla città, mentre quelle ne fruttavano tremila annue».

Ci è rimasta, interessantissima, la contro-querela del Comune di Rimini, anch’essa corazzata di bolle imperiali e pezze legali d’appoggio di ogni genere. Fu avanzata nel 1279, quando ormai il vescovo Ambrogio era morto e la causa veniva portata avanti dal suo successore, Guido dalle Caminate.

Non è rimasta però la sentenza definitiva, se mai vi fu. Fatto sta che nel 1282 il Comune di Rimini continuava a detenere saldamente tutti i castelli in questione e che il vescovo non ne rientrò mai più in possesso.

Però quelle antiche rivendicazioni non caddero mai e servirono a Roma per accumulare fascicoli su fascicoli. Finché, con il passo dei secoli ma inesorabilmente, tutto quanto, la stessa Rimini compresa, sarebbe finito sotto il governo diretto di Santa Madre Chiesa.