12 maggio 1224 – Il Papa perdona Rimini, il Vescovo no
12 Maggio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Annota Luigi Tonini: “Prevalendo nella città gli imperiali, avvenne che furono sanciti nuovi Statuti, alcun de’ quali in offensione della libertà ecclesiastica”.
Siamo nel 1224 e Podestà di Rimini è il notaio bergamasco Suzo Coleoni, un antenato del celebre condottiero quattrocentesco Bartolomeo Colleoni. Il Consiglio è formato da Oddo di Ramberto, Ugo di Carpegna, Marco de’ Pecci, Monaldo di Martin “trivigiano”, Ugo Zambelli, Tedelgardo giudice, Rainerio giudice, Martin Marnelli, Atto di Giovanni “ravignano”, Giovanni Randuini, Giovanbuono da Pusterla, Bentivegna di Piazza Maggiore. Sono tutti ghibellini, fra i quali in città primeggiano gli Omodei e i Parcitadi, le famiglie avversarie dei guelfi Gambacerri. La libertà ecclesiastica in questione è la potestà su beni, castelli, diritti fiscali, che il Comune tenta in ogni modo di sottrarre alla Diocesi di Rimini.
Il Vescovo di Rimini è il vicentino Bonaventura Trissino, detto “Ventura”, che ovviamente non ci sta e ricorre al Pontefice Onorio III, colui che aveva approvato la Regola di San Francesco d’Assisi, quella di San Domenico ed era stato tutore di Federico II di Svevia durante la minore età, per poi incoronarlo imperatore nel 1220. Il Papa rimette tutto al giudizio di Nicolò di Falcone, Legato Apostolico e Rettore della Massa Trabaria. E il giudizio è durissimo: se gli Statuti non saranno rimossi, su Podestà, Consiglio e Rimini tutta si abbatterà l’interdetto ecclesiastico.
L’interdetto comportava “la sospensione di tutti gli uffizi divini pel popolo, e la privazione de’ Sacramenti, all’infuori del Battesimo, della Cresima e della Penitenza; e l’Eucarestia solo in caso di morte e in privato”. In una città colpita da questa misura viene “chiusa ogni chiesa, coperta ogni sacra Immagine, non più feste, non più squilla di sacro bronzo, non canto di sacerdote, non pubblica benedizione di nozze, non conforto di ecclesiastica sepoltura”.
Facile immaginarsi cosa significhi tutto ciò in pieno XIII secolo, quando nessuno, nemmeno il più acerrimo nemico della Chiesa, eretici compresi, lontanamente mette in dubbio fede e religione. Fra l’altro, non è neppure la prima volta che Rimini incappa nel provvedimento e sempre per i medesimi motivi: la punizione è già stata assaggiata nel 1184 e nel 1195.
Al Podestà non resta che correre a Roma invocando l’assoluzione. E il 12 maggio Onorio benevolmente la concede, autorizzando il Vescovo Ventura a ribenedire la città, sempre a patto che quegli Statuti siano emendati, cosa che il Coleoni prontamente giura e spergiura.
Tutto a posto, allora? Mica tanto. Il Vescovo non si fa più trovare, impegnato fuori città in non meglio precisati uffici ecclesiastici. Passano i mesi, ma il presule resiste. E la “ribenedizione” non arriva, tanto che un anno dopo Onorio deve emettere un altro breve di assoluzione, affidandone l’esecuzione questa volta allo stesso Legato Nicolò di Falcone.
Ora però tocca al Vescovo far valere le proprie ragioni e a Roma manda in suo nome il Preposto Ildebrando (o Aldebrando, Aldobrando, già celebre predicatore contro gli eretici patarini che sarà poi Vescovo di Fossombrone e infine Santo), con il compito di dimostrare i gravi danni subiti dalla Diocesi, in realtà mai risarciti dal Comune, che continua nei suoi abusi.
Il Comune però riesce a ottenere la sospirata assoluzione definitiva il 22 novembre di quell’anno 1225 “sebbene non prestate al Capitolo le soddisfazioni richieste”.
Un esito che potrebbe apparire incomprensibile, con un Pontefice che sfavorisce un suo Vescovo. Ma Onorio in quel momento ha ben altre priorità: la crociata in Terrasanta, che dovrà essere la sesta, e la lotta contro gli eretici. Per compiere queste imprese c’è bisogno dell’Imperatore, Federico II di Svevia. Il Papa non ha alcuna intenzione di inimicarsi lui e i suoi Ghibellini per quisquilie riminesi. Tanto meno ora, che il sovrano “stupore del mondo” ha finalmente acconsentito a sancire la pena del rogo per gli eretici. E che sta per mettere per iscritto il suo impegno a prendere la Croce entro il 1227 (poi andrà davvero in crociata e prenderà anche Gerusalemme, ma a modo suo, trattando col Sultano).
E dunque, gli Statuti, è vero, vengono modificati – “rasi dal libro quanti parvero contrari alla Chiesa”, ma per il resto ci si accontenta di promesse: “fatto giurare Podestà e Consiglio che darebbero soddisfazione ai Canonici, e ubbidirebbero ai comandamenti del Papa e del Legato suo sul dubbio circa la giurisdizione di quegli uomini che dicevansi appartenere alla Chiesa riminese”.
Quanto il Vescovo sia contento della soluzione lo si vede subito: l’assoluzione papale non può neppure essere solennizzata nella cattedrale di San Colomba, perché le sue porte restano ostinatamente chiuse. La solenne benedizione del popolo, beninteso assente il Ventura, deve avvenire così nell’abbazia di San Giuliano, che non dipende né dal Vescovo, né dal Capitolo della Cattedrale.
Forse è allora, come annoterà già il Battaglini nel ‘600, che il Comune di Rimini proclama suo patrono San Giuliano e fa inscrivere negli Statuti (Rubrica 145, Libro II) le feste annuali in suo onore; fatto sta che non si trova San Giuliano invocato in un atto pubblico riminese prima del 1228. Fino ad allora patrono era solo San Gaudenzo: un vescovo.