12 settembre 1824 – Il Papa “no vax” dà la caccia ai Carbonari
12 Settembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Papa Leone XII (Annibale Francesco Clemente Melchiorre Girolamo Nicola della Genga dei conti di Fabriano, nato il 22 agosto 1760) che regnò dal 28 settembre 1823 al 10 febbraio 1829, passò alla storia come fiero reazionario. Il suo governo fu frugale e attento alla quella che oggi si chiamerebbe spending review. Ma nonostante le economie all’osso, alla fine del pontificato nelle casse pontificie c’erano meno soldi di prima. Colpa anche di un’economia assolutamente immobile, per nulla vivificata dalle timidissime riforme di Leone e anzi intimorita dalle ben più consistenti restaurazioni dell’Ancien Regime.
Era stato un giovane di bell’aspetto e dai modi aristocratici nonostante una salute sempre malferma, brillante nella conversazione e amante dei salotti. Durante la lunga permanenza nei paesi germanici anche come nunzio apostolico non erano mancate pesanti insinuazioni sulla sua sensibilità al fascino femminile. Ma più ancora gli si rimproverava un carattere irresoluto, un tenore di vita ben al di opra dei mezzi a disposizioni, con conseguenti pesanti indebitamenti, nonostante il rigorismo dei sui proclami. Tornato a Roma dopo il periodo napoleonico, da cardinale si era fatto mal volere dal popolo colpendo spietatamente e al riparo da ogni ombra di garantismo i delitti contro la morale: inosservanza delle feste, violazione del precetto, vagabondaggio, concubinato, prossenetismo. Per non dire della spietatezza in campo prettamente criminale, con processi sommari e sbrigative esecuzioni capitali bastanti anche semplici delazioni.
Con un Papa nemico del libero scambio, gli altissimi dazi imposti ad ogni importazione straniera ridussero la popolazione letteralmente alla fame, dato che lo Stato della Chiesa produceva ben poco di suo. Benedetto Croce avrebbe poi accusato il pontefice di essere stato fra l’altro né più né meno che un pioniere del movimento “no vax”; il filosofo scrisse infatti che «il papa che similmente abolì codici e tribunali istituiti dai francesi e volle tornare agli ordini del vecchio tempo, e rinchiuse daccapo i giudei nei ghetti e li astrinse ad assistere a pratiche di una religione che non era la loro, e perfino proibì l’innesto del vaiuolo che mischiava le linfe delle bestie con quelle degli uomini: vani sforzi che poi cedettero dal più al meno alle necessità dei tempi». Se riguardo la revoca dei codici napoleonici e l’antisemitismo Croce diceva il vero, sul vaccino era una mezza fake new: dai testi dell’epoca risulta che papa Leone non proibì il vaccino; nel 1824 abolì però l’obbligatorietà della vaccinazione, invisa a larghi strati della popolazione per la sua supposta pericolosità, pur mantenendone il carattere gratuito.
L’obbligo era stato istituito nello Stato Pontificio due anni dopo l’ennesima epidemia di vaiolo, il 20 giugno 1822, dal conte Monaldo Leopardi, gonfaloniere, padre di Giacomo Leopardi e rinomato reazionario. «Rimane obbligo a Medici e Chirurgi condotti di eseguirla gratuitamente [la vaccinazione antivaiolosa], a quanti vogliano prevalersene, essendo questa la cura ed il preservativo di una malattia alla quale, come a tutte le altre, essi hanno l’obbligo di riparare». (Leone XII, Circolare legatizia 15 settembre 1824).
Tuttavia il venir meno dell’obbligo portò però a trascurare la vaccinazione e fu causa della successiva epidemia, che nel 1828 solamente nella città di Bologna causò 553 morti; una terza epidemia di vaiolo si abbatté nel 1835.
Un altro campo in cui Leone XII si distinse fu la durezza con cui affrontò i liberali affiliati alla società segreta della Carboneria, contro la quale a dispetto delle severissime economie in altri campi non furono lesinate spese.
Durante il giubileo del 1825 furono ghigliottinati pubblicamente dal celebre boia Mastro Titta, in Piazza del Popolo a Roma, i due carbonari Angelo Targhini e il chirurgo cesenate Leonida Montanari. Il cardinale legato Agostino Rivarola, investito di poteri straordinari, venne mandato in Romagna per reprimere i Carbonari. Il 12 settembre del 1825 comparve a Rimini, come ricorda Carlo Tonini, un manifesto che annunciava «condanne politiche contro cinquecento e più persone, le quali furono affisse al Quartier militare, e coi precetti in iscritto fatti tenere a moltissime altre». Inoltre, «si fulminavano le unioni segrete, che con diverse denominazioni soleano tenersi ‘a danno del governo, e si proscrivevano per tutto lo Stato: la riunione di soli tre individui sarebbe considerata delittuosa». E sono considerati delitti il tenere corrispondenza con i Carbonari, dare loro denaro anche a prestito, offrire ospitalità, custodire «depositi di stemmi, emblemi, statuti, catechismi, sigilli, armi ad esse appartenenti».
Risultato: «Questi rigori non facevano che inasprire gli animi, e un chiaro segno ne fu l’attentato che a’ 23 di luglio 1826 fu commesso in Ravenna alle ore 11 pomeridiane contro la stessa persona del Legato card. Rivarola. Sebbene il colpo, che pur non fu mortale, cogliesse il canonico Muti, che veniva con esso in carrozza, pure si ritenne che contro il Legato fosse diretto, essendoché il Muti per errore erasi posto alla mano diritta».
Dopo i proclami, all’attentato contro il Legato seguono i fatti, con inchieste e processi anche a Rimini: «La notte del 15 al 16 del mese di ottobre furono arrestate molte persone nella città nostra, ed altre pure ne’ giorni appresso, fra le quali Giambattista Serpieri e il dott. Pellegrino Bagli, e furono immediatamente tradotte a Ravenna. Ma non essendosi verificati que’ delitti, de’ quali erano accusate, dopo lunga e penosa prigionia furono ne’ mesi di giugno e di luglio del 1827 rimesse in libertà. Se non che continuandosi le indagini e i processi, avvenne che alcuni dei rilasciati come innocenti fossero di nuovo imprigionati nell’agosto del ’28 insieme con altri. Nessuno però dei riminesi fu trovato involto nell’attentato contro la vita del Rivarola, di cui era stata già fatta nell’anno stesso rigorosa giustizia in Ravenna sopra sette infelici con appiccarli alle forche».
Oltre a Giambattista Serpieri e Pellegrino Bagli, a vedersela brutta furono, secondo il Giangi, Costantino Bagli, Luigi Serpieri, Nicola Martinelli, il dott. Ottavio Bottoni, il Marchése Ercole Buonadrata e Giuseppe Previtali. Sia Giangi che Zanotti, peraltro entrambi clericali e reazionari, attribuiscono le accuse contro costoro a «perfidi calunniatori, contro i quali perciò fu pubblicamente affìsso un cartello di — Morte alle infami e false spie — coi nomi di esse, e con una croce e un pugnale sotto, dipinti in nero».
D’altra parte, sempre secondo il Giangi, la Commissione straordinaria di polizia inviata in Romagna spese in due anni «pei gendarmi e per gli spionaggi» la bella cifra di 200 mila scudi: oggi sarebbero circa 13 milioni di euro.