16 agosto 1944 – Impiccati a Rimini i partigiani Mario Capelli, Luigi Nicolò e Adelio Pagliarani
16 Agosto 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 16 agosto 1944 i tre partigiani Mario Capelli, Luigi Nicolò e Adelio Pagliarani vengono impiccati nella piazza principale di Rimini, allora intitolata a Giulio Cesare e che da allora si chiamerà Tre Martiri.
I tre giovani partigiani, attivi nella Resistenza riminese sin dai primi giorni successivi all’Armistizio, nell’estate del 1944 facevano parte del medesimo Distaccamento della 29ª Brigata GAP “Gastone Sozzi”. Durante una operazione di sabotaggio ad una trebbiatrice, con l’obbiettivo di impedire la trebbiatura del grano che era obbligo consegnare ai nazifascisti, un gappista riminese fu riconosciuto e denunciato. Catturato, fu costretto sotto tortura a denunciare i compagni di lotta. A causa di queste informazioni i tre partigiani, che avevano come sede operativa la vecchia casermetta di Via Ducale, nel centro storico di Rimini, vennero sorpresi dai nazifascisti il 14 agosto, mentre un quarto partigiano che era con loro, Alfredo Cicchetti, si salvò fortunosamente. Imprigionati e torturati, non rivelarono i nomi di loro compagni.
La mattina del 16 agosto i tre vennero sottoposti a un processo sommario da parte della Corte marziale del 303° reggimento della 162° divisione di fanteria turkmena presieduta dall’Oberstleutenant Christiani e successivamente controfirmata dal generale Ralph von Heygendorff, comandante della divisione. Nell’avviso pubblico, firmato dal Commissario straordinario Ugo Ughi, si legge che i tre giovani sono stati giudicati colpevoli di «ammassamento clandestino di armi e munizioni a fine terroristico e di reati di sabotaggio e attentati contro cose e persone» e che la loro impiccagione pubblica deve servire di «esempio e di remora a chiunque».
Il 16 agosto i tre sono condotti in piazza e impiccati alle sette del mattino. L’esecuzione, così come era avvenuto per il processo, viene affidata ai militari Turkmeni, ausiliari “volontari” nella Wehrmacht, così che non possa essere attribuita direttamente nè ai tedeschi nè ai fascisti. I loro corpi vengono lasciati per tutta la giornata appesi ai capestri perchè tutti possano vederli, anche quando ormai sono tumefatti sotto il sole cocente e ricoperti di mosche. E chi si volta dall’altra parte viene costretto a guardare dai militi in camicia nera che montano la sorveglianza armata.
L’impalcatura della forca era ancora in piedi in mezzo alle macerie quando un mese dopo, il 21 settembre, le truppe alleate entravano nella città liberandola dai nazifascisti. Il patibolo si scorge anche in queste immagini che documentano l’ingresso delle truppe greche dell’VIII Armata nel centro di Rimini:
Il 9 ottobre 1944 la Giunta Municipale, nominata dal C.L.N., deliberò di cambiare il nome della piazza Giulio Cesare in piazza Tre Martiri. A seguito dell’intervento di arredo urbano realizzato nel 2000, il luogo ove avvenne l’esecuzione è segnalato a terra dalla proiezione idealizzata della trave cui erano appesi i capestri, mentre sul muro dell’edificio prospiciente è posta una targa ricordo in bronzo realizzata dallo scultore Elio Morri.
Una lapide, che ricorda la base partigiana ove avvenne la cattura dei tre giovani, è murata nei pressi della vecchia caserma in Via Ducale n. 5.
Perché i tre partigiani riminesi furono uccisi? E cosa si voleva dimostrare con un’esecuzione tanto crudele quanto plateale? Le risposte a queste domande non sono né chiare né scontate.
Infatti, se la condanna a morte rientrava senza dubbio fra le pene previste per i reati militari di cui furono trovati colpevoli (anche se sugli “attentati alle persone” in realtà la corte marziale non possedeva prove concrete) non per questo durante quei pur terribili anni l’esecuzione scattava automaticamente. E non sempre così in fretta. Per esempio, anche la semplice renitenza alla leva della Repubblica Sociale Italiana comportava la pena capitale, ma in realtà la stragrande maggioranza dei renitenti catturati finì deportato in Germania. Fra l’altro, nel processo sommario ai tre partigiani riminesi, tutti renitenti, questo capo d’accusa neppure venne preso in considerazione. Inoltre, le esecuzioni pubbliche di solito venivano perpetrate quale rappresaglia dopo attacchi alle truppe tedesche e fasciste.
E allora qual’era l’«esempio e di remora a chiunque» che si voleva esibire? A Rimini non c’erano state azioni partigiani di grande rilievo e nessun attacco diretto ai nazi-fascisti, la Resistenza non aveva fatto nessuna vittima nelle loro file. Nulla dunque che motivasse una rappresaglia di qualche tipo; e infatti neppure di questo si fa cenno nella motivazione della condanna.
Non c’era insomma una popolazione ostile da tenere a bada. Di più: ormai nel centro di Rimini la popolazione non c’era più, sfollata dalle autorità o fuggita spontaneamente per scampare ai bombardamenti incessanti.
Dal punto di vista militare esisteva invece la situazione di una immediata retrovia relativamente tranquilla, a ridosso di una prima linea del fronte che ormai si trovava alle porte di Fano; condizione che sconsiglia qualsiasi comandante di infierire sulla popolazione, compresa la sua componente più avversa, specie se fin lì non ha creato grandi problemi. Tanto più che di lì a pochissimi giorni sarebbe scattata l’offensiva degli alleati sul Cesano e poi sul Foglia e infine per la conquista della stessa Rimini. Le truppe combattenti avevano ben altro a cui pensare piuttosto che crearsi ulteriori complicazioni con una popolazione peraltro stremata e dispersa: di quale “esempio” poteva aver bisogno una città ridotta a fantasma di se stessa?
Ma se i motivi militari dell’eccidio erano inesistenti, quelli politici appaiono ancora più incomprensibili. Il processo fu affidato ad una corte marziale tedesca, ma formata da truppe ausiliarie di origine turkmena e azera aggregate alla Wehrmacht appositamente per la repressione dei “banditi”, dopo la pessima prova che avevano fornito in prima linea. La divisione si macchiò di altre feroci azioni contro i partigiani nel Nord Italia, dal Piacentino a Voghera e al Monferrato, come già aveva fatto prima in Toscana e nello Spezino. Il suo comandante, generale von Heygendorff, restò fedele a Hitler fino alla fine, tanto che lo gratificò della promozione a tenente generale il 20 gennaio 1945 e con la decorazione della Deutsches Kreuz in Gold addirittura il 30 aprile. Catturato dagli Alleati già il 4 maggio, appena quattro giorni prima della fine della guerra in Germania, se la cavò con una prigionia durata fino al 5 dicembre 1947. Morì il 10 dicembre 1953 a 56 anni senza aver subito ulteriori conseguenze per la sua condotta in guerra.
Ma da subito il responsabile della morte dei tre giovani fu additato in Paolo Tacchi, capo dei fascisti a Rimini e comandante del 3° battaglione GNR Brigata nera “A. Capanni” che faceva base nella colonia “Montalti” di via Tonale, la famigerata “colonia del fiume” .
Lo stesso Tacchi, intervistato da Amedeo Montemaggi nel 1964, raccontò di essere andato «casualmente» in via Ducale con i tedeschi. E come ricorda Antonio Montanari, «Nel ’46 un giornale locale, “Città nuova” aveva pubblicato il rapporto inviato dalla polizia di Rimini al federale fascista di Forlì in cui si diceva: “La cattura, nella caserma di via Ducale, di tre ribelli è stata opera personale della intelligente ricerca del Segretario Politico della città di Rimini, coadiuvato da elementi della Feld-Gendarmeria tedesca”. Quel Segretario Politico era appunto Tacchi. Il suo vice Mario Mosca, per difenderlo, ne rovesciò il racconto. Non fu Tacchi a seguire casualmente i nazisti, ma “un maresciallo tedesco si mise alle costole di Tacchi” per quella ricerca in via Ducale. Una volta scoperti i tre ragazzi armati, il nazista si fece avanti: voi non c’entrate più, ora è affar nostro” (in O. Cavallari, «Bandiera rossa…», 1979, p. 86)».
Tacchi, per l’uccisione dei Tre Martiri, fu prima condannato a morte (1946), poi assolto dalla Corte di Cassazione (1949). Più esattamente, come annota sempre Montanari: “La condanna di Tacchi è annullata nel dicembre 1946 dalla Cassazione, per mancanza di motivazione: la corte popolare si sarebbe fatta influenzare dalla bramosia di vendetta provocata dall’«odio attiratosi allora dal Tacchi». (…) Tacchi viene rinviato a giudizio in ambiente più sereno. A Roma, il 28 maggio 1947, Tacchi è condannato a trent’anni. Pure questo verdetto è annullato dalla Cassazione, per difetto di motivazione. In altri due successivi processi, Tacchi è assolto dalla stessa Cassazione nel 1949, per non avere commesso i fatti. Era stato per 38 mesi nel penitenziario di Procida. Non tornò a Rimini, morirà a Senigallia nel 1971”.
Ma se davvero furono lui e il morente fascismo a volere l’esecuzione, per un gesto tanto efferato ma soprattutto inutile da ogni punto di vista, non si scorge altra motivazione che quella di voler lasciare un marchio di sangue e disperazione.
Così come pochi giorni prima a Milano, in piazzale Loreto il 12 agosto, con la fucilazione di 15 partigiani e antifascisti e il vilipendio dei loro cadaveri esposti alla folla.
O a Forlì il 18 agosto, con l’impiccagione e l’esposizione in piazza dei partigiani Silvio Corbari (21 anni), Adriano Casadei (22 anni), Arturo Spazzoli (21 anni) e del cadavere di Iris Versari (22 anni), che ore prima aveva riservato per se l’ultima pallottola pur di non cadere viva nella mani dei carnefici.
O come nelle centinaia di massacri, spesso di civili inermi e non di rado senza alcuna plausibile motivazione militare o politica, che insanguinarono quell’estate del 1944 Umbria, Marche, Toscana, Veneto, Friuli, Emilia, Lombardia, Liguria, Piemonte.
Sangue e disperazione, appunto. Come gli stessi autori di quei crimini cantavano marciando:
Brigate nere
avanguardia di morte
siam vessillo di lotte e di orror…