Il 16 gennaio la Chiesa commemora San Marcello. Romano, vissuto ai tempi di Diocleziano e Massenzio (III-IV secolo) forse, nonostante leggende che lo riguardano, non fu né papa, né martire, né condannato ad accudire i cavalli nella stazione di posta in cui era stata trasformata la sua chiesa. Sia come sia, fu adottato come patrono dagli stallieri.
“Un gn’è un caval che corra, che un ent ch’un arriva”, non c’è un cavallo che corra, che un altro non lo superi. Oggi fatichiamo a immaginare il ruolo che ebbe il cavallo fino a ieri. Il culto dell’automobile e della moto solo lontanamente rispecchiano la simbiosi che l’uomo aveva imposto al quadrupede, subendone a sua volta il fascino inarrivabile. E un’infinità di profonde, e ovvie, saggezze erano basate su immagini equestri.
“Caval bienc, la dona senza fienc, la tera dri e fiom, pataca chi la to”, cavallo bianco, donna senza fianchi, terra vicino al fiume, coglione chi li prende! secondo Quondamatteo, “tutte cose dalle quali stare lontani”.
“E’ caval bon l’ha da murì t la stala”, il cavallo di razza deve morire nella stalla, a riprodursi, e non al mattatoio.
“Per andè a caval u j vo i sprun”, per comandare ci vuole grinta, perché il cavallo rispetta chi comanda. “Avè di elt caval t’la stala”, avere altri cavalli nella stalla, disporre di altre risorse nascoste.
Ma anche “Tratè a coda d’ caval”, trattare a coda di cavallo, ricordo di quando il nobile animale poteva essere usato nel più atroce dei supplizi, l’essere trascinato a morte legato alla coda di un cavallo. La pena, riservata ai traditori, era assai comune anche in Romagna ed è citata anche da Dante a proposito del suo arcinemico Corso Donati: “a coda d’una bestia tratto”.
Anche per il più malridotto, o chi si dice tale, c’era paragone proverbiale con un cavallo: “Es com e’ caval d’ Scaja, c’l’aveva trentatsì mel sota la coda”, essere come il cavallo di Scaglia, che aveva trentasei mali sotto la coda, di chi si lamenta a non finire dei suoi mali. E a Pennabilli: “L’è com’ al bric d’ Pirin, ch’ avea novantanovi magagni e una dria ma la coda!”. Ma il disgraziato equino non è certo monopolio di Rimini e Valmareccha: “L é cme al cavâl ed Scâja ch’l avèva trantasî mèl såtta ala cô” dicono a Bologna, “scurghêd coma e’ caval d’ Scaia che l’avéva trentasì scurgadur sól sota la códa” a Ravenna (Mauro Mazzotti, La Ludla Ottobre 2006), ma non è affatto sconosciuto nel pesarese e in tutto il Montefeltro, mentre a Forlì il poeta dialettale Mario Vespignani (1924-2015), intitola una della sue raccolte E’ sumàr ad Scaja.
Inoltre a Rimini chie è conciato da far davvero compassione viene paragonato al“caval ad Scaja che da e bus de cul ui s’vid i deint” dal culo si vedono i denti o addirittura “i urèci”, così come a Bologna al “Cavâl d Scâja as i vadd i dént in båcca pr al bûṡ dal cûl”. Oppure“T’am per e’ caval d’Scaja, che e’ bus piò znin l’è quel de cul”, il buco più piccolo è quello del culo,
Sia poi mai esistito un capostipite dei tanti Scaja, o fosse la personificazione della miseria cui non pochi erano degni di averla anche come soprannome (sempre Quondamatteo: “A j ho na scaja m’adoss c’la bastarea par du fameji”, ho addosso una miseria che basterebbe per due famiglie; “La na scaja com e’ zivli d’ vala”, ha una miseria come il cefalo di valle, cibo povero per gli ultimi dei poveri, quelli delle paludi poelsane), non è dato sapersi.
Enzo Pirroni ha però scovato un documento: “1867, anno nel quale si cita per la prima volta Scaja. Un cantastorie del Borgo Sant’Andrea parla de e caval ad Scaja poi in seguito un certo Buraschin (nato nel 1854) venditore ambulante di ferri vecchi e anche lui compositore di semplici zirudeli, riprende “e caval ad Scaja” e ne è testimonianza un foglietto senza data sul quale è stampata una poesia in rima baciata intitolata: La mi cavala. A chi gli chiedeva quant’anni avesse la sua cavalla, Buraschin rispondeva: “A ne so. A so però che la su fiola la è morta d’av- ciaia”. E in questa poesia parla di Scaja, che “e steva bein e vuleva sté mei e l’è mort””.