Il 19 gennaio la Chiesa cattolica celebra Santa Liberata da Como assieme alla sorella Faustina. Nate secondo la tradizioni nella Rocca d’Olgisio che domina tutt’ora la Val di Taro, nel Piacentino, di cui il padre Giovannato sarebbe stato proprietario, si trasferirono a Como per divenire monache benedettine, sfuggendo così ai matrimoni combinati che si preparavano per loro.
Pur essendo morte vergini – in quanto tali raffigurate con il giglio – Liberata e Faustina nel nord Italia sono invocate dalle puerpere, dalle balie e a protezione dei neonati. Inoltre l’immagine più comune di Liberata è quella con due o più neonati in braccio, singolarmente simile a quella della Mater Matuta, la divinità romana della maternità.
Ulteriore confusione è data dalla sovrapposizione con un’altra Santa Liberata (Livrade), martire del II secolo venerata soprattutto in Francia e Spagna, che una falsa tradizione voleva morta sulla croce: finì a comporre la singolare leggenda di Santa Vilgefortis (o Wilgefortis, da Virgo fortis). Per aiutarla a preservare la castità, Dio avrebbe esaudito il suo desiderio: assumere l’aspetto più repellente per gli uomini. Le sarebbe perciò cresciuta una folta barba, ma il padre furibondo, un nobile portoghese dell’VIII secolo che voleva accasarla a un cavaliere, l’avrebbe per questo fatta crocifiggere.
Senta Liberèda dalle nostre parti non fu crocifissa né ebbe la barba. Continuò invece a occuparsi del delicatissimo momento della nascita.
“Avè la moj s’l’arola”, avere la moglie sull’arola: quando la moglie avvertiva le prime doglie, si sedeva sull’orlo del focolare, la pietra sacra della casa. La prima arola era quindi la primipara, così come in tutta Italia. “Na prima rola”, commenta preoccupato il romano dottor Tersilli (Alberto Sordi in “Il medico della mutua”) apprestandosi a visitare una gestante.
Inutile sottolineare l’arcana sacralità del gesto: la donna dovendo porsi sotto la protezione degli antenati che “incontra” sull’altare domestico del focolare. E il frutto del suo seno avrebbe preso il nome del parente defunto, che sarebbe in qualche modo “rinato” con lui. “Suonate le campane che mi è nato il nato il babbo”, annunciava il nuovo padre, se orfano, come riporta Eraldo Baldini in “I riti del nascere in Romagna – gravidanza, parto e battesimo in una cultura popolare”,
“E’ mel de pert ut pasarà, mo in mimoria ut vnirà”, il dolore del parto ti passerà, ma te lo ricorderai sempre.
“A j ho la moj in t’la paja”, ho la moglie nella paglia, così diceva il marito con la puerpera in casa, per la quale si preparava l’impajeda, il giaciglio di paglia che era la miglior sala parto possibile nelle case contadine. Fra le mille precauzioni, nella stanza dell‘impajeda era rigorosamente proibito indossare oggetti d’oro.
“Andè da l’impajéda”, andare all’impagliata: usava portare in dono alla puerpera “una gallina per fare un buon brodo, uova fresche, zucchero, caffè, ciambelle, ecc. L’impajèda era anche il pranzo in occasione del battesimo”: così Quondamatteo.
La città di Faenza per l’Epifania regala ancora l’impagliata ai primi nati dell’anno: un “servizio per la puerpera” in maiolica, quale omaggio della città al primo maschietto e alla prima femminuccia.
“L’impaiulèda” era invece il festino che la nuova madre offriva ai parenti una o due settimane dopo il lieto evento, ricevendo in regalo capponi, pane dolce, uova, formaggio e vino.
“D’mama sicur a so, mo de ba a ne so”, della mamma son sicuro, del babbo non lo so; “La ma sicura, e’ ba d’vintura”, mamma sicura, babbo di ventura: così il popolo romagnolo traduceva il classico Mater semper certa est, pater numquam.
“La ma la vo ben me fiul, perchè u la port nov mis spessa me cor“, la mamma vuol bene al figlio perché l’ha portato nove mesi vicino al cuore.
“La ma la n’è sicura de fiul, intent cu n’ha avù la felsa e e’ varùl”, la mamma non è sicura del figlio fintanto che non avrà avuto il morbillo e il vaiolo, i principali responsabili della mortalità infantile, quando non esistevano i vaccini.
“Quand e fa i dent e’ babèn, alora e dventa cusèn”, quando il bambino fa i denti allora diventa cugino: soltanto allora era riconosciuto dai parenti come componente della famiglia a tutti gli effetti. Ancora a Cesena e non solo: “E babèn intant c’un da i dent, l’è Serafen”, il bambino finché non fa i denti è un Serafino, un angioletto nemmeno di questo mondo, come erano considerati i purtroppo tantissimi che non arrivavano neppure a quel primo traguardo. Nel 1887 la mortalità infantile in Italia era del 34,7% e nel 1942 sfiorava ancora il 16%; secondo l’Onu nel 2022 la più alta del mondo è stata in Afghanistan con il 12,2%, mentre l’Italia era allo 0,5%.
“Quand è burdlin l’ha titè, vein dacquè t’ha je da dè“, dopo le poppate, vino annacquato: così funzionava lo sbrigativo svezzamento d’altri tempi.
(nell’immagine di apertura, Santa Liberata tra Santa Margherita e Santa Lucia (Autore ignoto del XV secolo, Montalto Dora, Cappella del Castello).
19 gennaio 1601 – Nasce a Santarcangelo Guido Cagnacci, genio del Seicento romagnolo