20 gennaio 271 – I Germani attaccano Rimini e distruggono la Domus del Chirurgo
20 Gennaio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
“A Gallieno ucciso nel 268, ed a M. Aurelio Claudio morto nel 270, successe Aureliano, che venuto a Roma e d’alcun poco ristorato l’Impero, per la via d’Aquileja si portò contro i Goti che nuovamente infestavano quelle parti. Mentre però ei trionfava di que’ Barbari, un’armata di Giutunghi e di Marcomanni prendeva Milano, Piacenza, e si stendeva per l’Emilia e per la Flaminia: nè a tale irruzione potè far argine l’Imperatore se non con due vittorie ottenute l’una verso Pavia l’altra al Metauro presso Fano. Vedi che senza bisogno di speciali memorie siam fatti sicuri che la tempesta barbarica scorse anche le terre nostre”: così scriveva Luigi Tonini nella sua “Storia civile e sacra riminese vol.II” del 1856.
E ancora: “In tutti questi fatti, in tutti questi trambusti, egli è possibile che anco Rimini non abbia avuta la sua buona parte meritevole di ricordo? Ma nulla passò nelle Storie che ci son pervenute. Solo una Leggenda degli Atti di S. Leone e di S. Marino scritta nel Secolo XI ci avrebbe tramandato che questa città per opera di un tal Demostene Re de’ Liburni fosse miseramente distrutta e fatta preda orrenda del fuoco, talmente che abbisognasse che indi appresso circa il 257 (plusve CCLVII ) venisse rifabbricata per opera di Diocleziano e di Massimiano. Sul merito di quella Leggenda, e sull’anacronismo che vi riscontri, abbiam detto già qualche cosa a p. 225 del Volume precedente ove fu parola dell’Anfiteatro; e ne diremo alcun’altra nel Secolo che viene qui presso, perchè nel presentarci essa il curioso Editto imperiale per la riedificazione di Rimini lo dice emanato a tempo della persecuzione mossa ai Cristiani, la quale non ebbe principio avanti il febbrajo del 303. Osserverem qui piuttosto che se Aureliano circa il 271 o il 272 ruppe i Marcomanni verso Fano, è ben probabile che coloro avessero lasciate tracce della loro ferocia per tutto ove erano passati…”.
Lo storico riminese aveva dunque intuito dalle sole fonti letterarie che durante l’impero di Aureliano Rimini aveva subito qualcosa di drammatico. Sulle memorie dei dotti si erano incrostate quelle del popolo, sempre più confuse con il trascorrere dei secoli e mescolate alle leggende dei santi locali più popolari, come gli scalpellini dalmati Marino e Leone che sarebbero stati reclutati nella “ricostruzione” di Rimini o almeno delle sue mura. Ed era tutto: Tonini mai avrebbe immaginato che le prove materiali di quegli eventi giacevano sotto pochi metri di terra, in un luogo che conosceva benissimo.
Era l’isolato dove sorgevano il collegio delle Celibate, l’antichissima chiesa di San Tomaso (V secolo) e quella di San Paterniano (o Patrignano: il primo vescovo di Fano), già oratorio della Confraternita dei Tedeschi, poi di S.Maria Maddalena, poi del Cuor di Gesù. Proprio fra le pertinenze di questa chiesetta c’erano alcune fosse granarie e Tonini sul loro fondo aveva notato del mosaico romano. Nel 1888, quando tutto l’isolato fu raso al suolo per creare i giardini di Piazza Ferrari, suo figlio Carlo vide emergere le mura “aureliane” di Rimini. Ma nessuno poteva sperare in una scoperta come quella che avverrà solo un secolo dopo, nel 1989: la Domus del Chirurgo.
Le mura annerite, la grata di ferro ancora sul pavimento dove era stata gettata, gli strumenti del chirurgo fusi dall’incendio: ecco la “pistola fumante”, ecco un “cold case” che trova soluzione dopo 1.700 anni. Sì, anche Riminì era stata attaccata dalle tribù germaniche durante le scorrerie del III secolo, anche se le fonti letterarie non la citavano, forse perchè altre città avevano subito danni ancora peggiori. Ma aveva patito la sua parte e subito dopo, in fretta e furia, erano state erette le mura sul lato della città che probabilmente fino ad allora non ne aveva mai avute, quello sul mare. Mura che inglobarono anche l’anfiteatro di Ariminum, esattamente come si fece a Roma con l’anfiteatro Castrense negli stessi anni e per ordine dello stesso imperatore Aureliano.
E cosa dunque accadde in quel III secolo? Le incursioni dei popoli germani a nord del Danubio, chiamati Marcomanni, Naristi, Vandali, Iutungi, si intensificarono sempre più. La fortezza legionaria di Lauriacum, (nei dintorni di Lorch, ora sobborgo di Enns, nell’Austria superiore) come tutte le altre città del Norico (attuale Austria centrale ad ovest di Vienna, parte di Baviera, Slovenia nord-orientale, parte dell’arco alpino friulano) e delle vicine Rezia (includeva parti delle attuali Svizzera, Baviera, Svevia, Austria, Trentino, Tirolo, provincia di Belluno ed alcune valli della Lombardia settentrionale, tra cui la Valtellina) e Pannonia (parte occidentale dell’attuale Ungheria, il Burgenland oggi Land austriaco fino a Vienna, la parte nord della Croazia e parte della Slovenia) poste lungo il limes dell’impero romano, si trovarono in prima linea a fronteggiarle. In particolare vi sarebbero evidenti segni di distruzione di parte dell’accampamento legionario di Lauriacum durante gli anni delle campagne di Massimino il Trace del 235-236.
I “Giutunghi” di Tonini, detti oggi per lo più Iutungi (o Jutungi, Iutunghi, greco Ιουθούνγκι e latino Iuthungi, tedesco Juthungen: in germanico i “legittimi discendenti?”) erano una tribù dell’alleanza degli Alemanni “tutti gli uomini”); chiamavano se stessi Suebi, o Svevi, e vivevano tra i fiumi Danubio e Altmühl, nell’odierna Baviera. Facevano parte degli Alemanni anche Catti, Naristi, Ermunduri e parte dei Semnoni, che a loro volta secondo alcuni equivalevano gli Iutungi.
Gli Iutungi compirono una scorreria in Italia già nel 259, ma mentre si ritiravano furono sconfitti il 24 o 25 aprile del 260 nei pressi di Augusta (Augsburg nell’attuale Baviera) da Marcus Simplicius Genialis, agens vice praesidis di Rezia. In questa occasione furono liberati migliaia di prigionieri italici. Gli Alemanni ci riprovarono nel 268, scendendo dal Brennero in 100 mila mentre l’imperatore Marco Aurelio Claudio era impegnato a fronteggiare contemporaneamente la ribellione dell’usurpatore Aureolo e i Goti: sconfiggendoli a Naisso (Niš in Serbia) nel 269 si sarebbe guadagnato l’appellativo di “Claudio il Gotico”. In novembre nei pressi del lago di Garda (battaglia del Benaco) i 35 mila uomini di Claudio sbaragliarono gli invasori, che avrebbero lasciato sul campo 50 mila morti.
Con l’inizio del 270, una nuova invasione di Iutungi tornò a procurare ingenti danni in Rezia e Norico. Claudio, costretto ad intervenire immediatamente, affidò il comando balcanico ad Aureliano e raggiunse Sirmio, suo quartier generale (l’attuale Sremska Mitrovica in Serbia), da dove poteva meglio operare. Ma poco dopo morì per un’epidemia di peste, l’ennesima scoppiata tra le file del suo esercito, non senza qualche sospetto di avvelenamento. Gli successe il fratello Quintilio, che però si tolse la vita quasi subito ad Aquileia vedendo di non poter resistere ad Aureliano, acclamato Cesare dai suoi soldati. Questi imperatori erano tutti e tre militari e di stirpe illirica, all’epoca il principale bacino di reclutamento delle truppe imperiali.
Nel gennaio del 271 Alemanni e Marcomanni (“uomini del confine”?) invasero in massa l’Italia: Dessippo parla esplicitamente di una nuova invasione degli Iutungi. Aureliano, che si trovava nella Pannonia superiore (attuale Austria) dove aveva appena respinto un’orda di Vandali Asdingi (germanici) rinforzata da alcune bande di Sarmati Iazigi (iranici), fu costretto ad accorrere in Italia. Raggiunta la pianura padana a marce forzate percorrendo la via Postumia, cadde però in un’imboscata dei Germani e fu sconfitto presso Piacenza.
«Aureliano voleva affrontare l’esercito nemico tutto insieme, riunendo le proprie forze, ma nei pressi di Piacenza subì una tale disfatta, che l’Impero romano per poco non cadde. La causa di questa disfatta fu una mossa sleale ed astuta da parte dei barbari. Essi, non potendo affrontare lo scontro in campo aperto, si rifugiarono in un densissimo bosco e verso sera attaccarono i nostri di sorpresa.»
(Historia Augusta – Aureliano, 21.1-3.)
A quel punto “i barbari, per avidità di bottino”, si divisero in numerose bande che saccheggiarono le città della costa adriatica, quali Pisaurum e Fanum Fortunae, come si ritrova nel Corpus Inscriptionum Latinarum; a differenza di Pesaro e Fano, Ariminum non viene citata. Sappiamo che era la fine di gennaio del 271; diciamo che furono a Rimini verso il 20 del mese? Non molto distante da Fano, lungo la via Flaminia sulle sponde del fiume Metauro, i razziatori furono però raggiunti e sconfitti una prima volta da Aureliano, che aveva saputo riorganizzare le sue truppe. L’imperatore costrinse gli Alemanni a schierarsi con il fiume alle spalle: quando riuscì a far arretrare le loro linee, in molti caddero nel fiume annegando. Nella battaglia si sarebbero affrontati 19 mila Romani e 22 mila Germani; i primi avrebbero perso 900 uomini, i secondi 3 mila.
Malgrado la batosta, i Germani riuscirono a risalire la via Flaminia verso Rimini e poi imboccarono la via Emilia, portando con sé gran parte del bottino catturato. Aureliano li incalzò, raggiungendoli nei pressi di Pavia, dove li sconfisse definitivamente. Si vogliano o no prendere per buone le cifre degli storici romani, fu certamente un’ecatombe. 40 mila legionari di Aureliano riuscirono a disperdere l’orda di 125 mila “barbari”, che si diedero alla fuga dividendosi in piccoli gruppi, tutti però rastrellati e sterminati, l’intero bottino recuperato; le vittime fra i Germani sarebbero state 100 mila a fronte di 9.500 Romani morti. Per questa vittoria Aureliano ricevette il titolo di Germanicus Maximus.
Per almeno altri vent’anni gli Alemanni e le tribù loro affini non osarono più alzare la testa. Ma lo spavento per la loro incursione fu tale che Aureliano cinse di nuove mura la stessa Roma, che non ne aveva più avute dai tempi della repubblica mezzo millennio prima: è la cerchia giunta fino a noi e ancora in efficienza nel XIX secolo, sebbene fosse stata eretta in brevissimo tempo e con ogni materiale disponibile, compresi pezzi di statue e architetture. E così accadde ad Ariminum e in chissà quante altre città. In seguito, forse al tempo di Diocleziano (284-305), si fortificò il corridoio che dalla Pannonia e dalla Dalmazia immette in Italia attraverso le Alpi Giulie: il cosiddetto Claustra Alpium Iuliarum che avrebbe dovuto fermare ogni ulteriore invasione.
Servì a proteggere la penisola, ma fra il 356 e il 358 Iutungi e Alemanni invasero la provincia della Rezia, distruggendone la capitale, Castra Regina (l’attuale Ratisbona in Baviera) che era uno degli insediamenti militari romani più grandi in Germania. Una nuova invasione della Rezia nel 383 fu invece respinta da un esercito mercenario composto da ausiliari Alani iranici e Unni sud-siberiani. Tra il 429 e il 431, il generale Ezio combatté contro gli Iutungi in Rezia e contro i Nori, questi ultimi probabilmente abitanti del Norico in rivolta. E’ l’ultima memoria che si ha degli Iutungi.
Gli Alemanni invece faranno ancora parlare di se a lungo, fino a costituire nell’VII secolo un ducato e nell’VIII un regno, l’Alemannia; sottomesso ai Franchi, comprendeva la diocesi di Strasburgo, il territorio di Augusta, la diocesi di Magonza e Basilea. Oggi i loro discendenti sono divisi in parti di quattro differenti nazioni: Francia (Alsazia), Germania (Svevia e parte della Baviera), Svizzera e Austria; regioni dove si parlano dialetti derivati dall’alemanno che ben si distinguono dal tedesco parlato altrove.