20 settembre 1870 – Il verucchiese Andrea Ripa cade alla presa di Porta Pia
20 Settembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Fu detto “riminese” o perfino “di Ravenna”. Divenne uno degli “eroi di Porta Pia”, ovvero uno dei caduti dell’esercito italiano nella “battaglia” del 20 settembre 1870 che pose fine al millenario potere temporale dei Papi e fece di Roma la capitale d’Italia.
In realtà Andrea Alarico Ripa era nato a Verucchio il 5 settembre 1841. Quasi un destino nel nome impostogli dal padre Luigi Ripa: Alarico come il re dei Goti che più di 1400 anni prima (il 24 agosto 410 per l’esattezza) aveva conquistato e saccheggiato la Città Eterna; a sua volta otto secoli dopo (18 luglio 390, o 388 a.C) il sacco di Roma dei Galli di Brenno, anche loro partiti da queste parti.
La madre di Andrea Alarico era Virginia Ugolini e i padrini erano stati Enrico Serpieri e Luigi Carlo Farini, entrambi fieri liberali. Serpieri, che aveva combattuto alla battaglia delle Celle del 25 marzo 1831, più volte incarcerato anche nella fortezza di San Leo, era stato deputato della Repubblica Romana nel 1849 e poi eletto dai riminesi nel parlamento del Regno d’Italia nel 1865, schierato con la Sinistra. Farini, che era di Lugo, era stato medico condotto a Montescudo e sempre coinvolto nei moti patriottici, pur su posizioni assai moderate. Sarà lui fra il 1859 e il 1860 a porgere a Vittorio Emanuele II i risultati degli schiaccianti plebisciti con cui i ducati emiliani e le province delle Legazioni di Bologna e delle Romagne chiedevano l’annessione al nuovo regno d’Italia. Di quel regno sarà poi anche Presidente del Consiglio tra l’8 dicembre 1862 e il 24 marzo 1863, ma dopo poche settimane rivelò i sintomi di una grave malattia mentale
Come molti altri che credono in un’Italia unita, Luigi Ripa viene più volte incarcerato e alla fine deve andarsene in esilio a Torino. Il figlio lo raggiunge nel 1857. Quando due anni dopo scoppia la seconda guerra d’indipendenza, nonostante i suoi 17 anni Andrea Alarico riesce a farsi arruolare in fanteria con il grado di sergente. Il 9 settembre 1860 è sottotenente e torna in Romagna con le truppe che invadono lo stato pontificio. Combatte a Castelfidardo, Macerone, Capua e partecipa agli assedi di Ancona, Gaeta e Messina guadagnandosi diverse menzioni d’onore. Al termine della campagna viene promosso luogotenente.
Nel 1864 realizza il suo sogno di far parte dei Bersaglieri, ma nel 1866 allo scoppio della terza guerra d’indipendenza la promozione a capitano lo riporta in fanteria, nei cui reparti combatte a Custoza. Viene quindi ricollocato nei Bersaglieri e mandato a reprimere i briganti in Abruzzo.
Nel 1870 la disfatta francese contro la Prussia lascia lo stato pontificio, ridotto a meno del Lazio, pressoché indifeso. E’ l’occasione attesa da decenni da tutti i patrioti italiani. Nel 1867 erano stati i repubblicani di Garibaldi a tentare il colpo decisivo, ma le armi francesi li avevo respinti a Mentana. L’imperatore Napoleone III aveva lasciato a Roma una guarnigione di 4 mila uomini, nonostante le proteste italiane. La Francia però nel 1870 dichiara guerra alla Prussia e quelle truppe servono in patria. E il 2 settembre viene disastrosamente sconfitta dai prussiani a Sedan, Napoleone III è loro prigioniero. Il 4 settembre viene proclamata la terza repubblica francese. Il Regno d’Italia non perde tempo. Per mettere fuori gioco i repubblicani fa incarcerare Giuseppe Mazzini a Gaeta e blocca Garibaldi a Caprera. Quindi scatta l’invasione.
Falliti gli ultimi tentativi diplomatici e di fronte al rifiuto di papa Pio IX di cedere pacificamente, il 10 settembre i circa 50 mila uomini del generale Raffaele Cadorna varcano i confini pontifici e occupano quasi senza colpo ferire tutto il Lazio ancora pontificio. Il 15 settembre si presentano alle mura aureliane, difese dai 13 mila soldati (di cui oltre 5 mila volontari) del generale Hermann Kanzler. Un esercito piccolo ma niente affatto simbolico. Fra l’altro i cattolici americani li hanno riforniti di moderne carabine a retrocarica Remington Rolling Block (le stesse in dotazione al 7° cavalleggeri di G. A. Custer a Little Big Horn nel 1876).
Dopo ulteriori passi diplomatitici che non sortiscono effetto, alle 5.10 del 20 settembre il 7º Reggimento di artiglieria di Pisa apre il fuoco e lo concentra sulla sinistra di Porta Pia che si apre sulla via Nomentana, mentre alcune batterie martellano altre porte a scopo diversivo. Verso le 9.30 la breccia nelle mura viene giudicata sufficiente e due reparti, uno di fanteria e uno di Bersaglieri, ricevono l’ordine di attacco. Al comando del 12° battaglione Bersaglieri c’è il capitano Andrea Alarico Ripa. Gli italiani gridano “Savoia!”, i pontifici “Viva Pio IX! Viva il Papa Re!” e intonano il canto dei Crociati di Cathelineau, inno dei vandeani contro i rivoluzionari francesi nel 1793-96.
La scena è descritta anche dai giornalisti presenti sul posto. Fra loro, l’inviato speciale de La Nazione di Firenze (oggi si direbbe “embedded”, dato che portava i gradi di ufficiale dell’esercito) è Edmondo De Amicis che scrive: «La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti».
Sotto il fuoco degli Zuavi pontifici cadono morti una trentina di italiani, a iniziare dal maggiore Giacomo Pagliari comandante del 34º Bersaglieri. Le vittime italiane di tutta la campagna saranno 49, 141 i feriti. I pontifici avranno 20 morti e 49 feriti.
Come scriverà lo stesso Andrea Ripa alla madre, uno zuavo con il suo Remington gli spara a bruciapelo ad una gamba, spezzandogli tibia e perone. Una brutta ferita, ma come scrive Amedeo Montemaggi (in Ariminum, marzo-aprile 2018), ricoverato all’Ospedale di Santo Spirito e curato dal luminare professor Feliciani, dopo circa un mese di degenza viene dichiarato fuori pericolo. Il suo commilitone capitano Leopoldo Serra, anch’esso ferito, lo descrive così: «Apparivano tutte le buone qualità dell’indole romagnola, la schiettezza, la propensione ad essere più allegro che malinconico, la generosità e la bontà grande dell’animo, che si rispecchiava nella espressione sorridente e lieta del bel volto pieno e dal labbro ombreggiato da due soli piccoli baffi neri». Al suo capezzale sono giunti da Verucchio i genitori.
Ma come riportano le cronache «invece della guarigione sopravvenne in lui la febbre d’assorbimento e la cancrena d’ospedale». E poi il tragico epilogo: «Il Ripa soffrì per tre giorni una penosa, straziante agonia fra le braccia del padre, della madre e del fido amico. Spirò ad un’ora pom. del 29 ottobre, accarezzando il capo della madre ed invocando l’Italia». Secondo i giornali, al corteo funebre che lo trasporta da Santo Spirito al cimitero del Verano partecipano 18 mila persone.
Nel 2015, per iniziativa del Comitato Riminese dell’Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, Rimini intitola ad Andrea Ripa il ponte sull’Ausa di fronte all’Arco d’Augusto, dove inizia la via XX Settembre 1870 nel Borgo che prende lo stesso nome.
Quel Borgo fino allora chiamato di S. Giovanni (prima S. Bartolo e prima ancora S. Genesio), detto dal popolo anche “Borgo dei Signori” per essere il più florido della città, nonché roccaforte dei “Culi gialli”, cioè i clericali acerrimi nemici dei repubblicani di Borgo Mazzini (Sant’Andrea) e dei socialisti del Borgo San Giuliano, degli anarchici della Castlaza.