21 novembre 1945 – Dopo la guerra si progetta “La Nuova Rimini”: che non si farà
21 Novembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 21 novembre 1945 il Comune di Rimini completa la relazione contenente i «Dati statistici delle distruzioni di guerra al centro urbano di Rimini». La relazione viene inviata al Governo il 27 dello stesso mese.
In sintesi, la relazione così elencava i danni:
- il 75% dei fabbricati distrutti o inagibili;
- l’acquedotto comunale inutilizzabile;
- l’ospedale civile parzialmente distrutto e privo di attrezzature;
- il cimitero impraticabile con diverse tumulazioni scoperte;
- i ponti stradali e ferroviari quasi tutti annientati e danneggiati;
- la stazione ferroviaria e le linee secondarie distrutte e prive di materiale;
- la filovia Rimini-Riccione inutilizzabile per la distruzione delle carrozze e per l’asportazione delle linee aeree;
- gli edifici scolastici quasi tutti crollati;
- le strade urbane e del forese generalmente deteriorate ed ingombre di macerie;
- le chiese tutte distrutte, tranne due;
- gli impianti di gas, luce, telefono, interrotti ed inutilizzabili;
- l’attrezzatura turistico-balneare, annientata per i 4/5;
- l’agricoltura danneggiata gravemente;
- i cantieri navali distrutti e la flotta peschereccia totalmente affondata;
- il teatro comunale parzialmente distrutto.
Su 72 mila residenti, 43 mila erano senza casa. Su 121.500 vani censiti prima della guerra, 109.350 risultavano distrutti o inabitabili.
Urgeva un piano regolatore per la ricostruzione. Il primo a essere redatto fu quello dell’architetto Ernesto La Padula; docente a Roma, fra l’altro dal 1937 al ’41 aveva lavorato, insieme a Giovanni Guerrini e Mario Romano, alla progettazione del “Palazzo della Civiltà Italiana”, che doveva far parte dell’esposizione universale in programma nella capitale per il 1942 ed è ora uno dei più caratteristici edifici del quartiere EUR.
Il “piano La Padula” – studiato anche da Maura Pandolfi nella sua tesi di laurea in architettura “Rimini, immagini di città” (2015), da cui traiamo preziose informazioni – prevedeva fra l’altro: la deviazione dell’Ausa, la realizzazione del depuratore, lo spostamento a monte della stazione ferroviaria fino alle falde di Covignano, la realizzazione di aree produttive e l’espansione della ricezione turistica: dal Grand Hotel in poi sarebbe dovuta sorgere una serie di nuovi e modernissimi hotel affacciato su di un nuovo lungomare ralzato di 3 metri.
In particolare, la stazione sarebbe dovuta finire circa nell’area dell’attuale palacongressi; un percorso a 7 metri dal suolo vi avrebbe portato le linee, che si sarebbero riallacciate al tracciato originario dopo l’aeroporto, fra Miramare e Riccione.
Nelle aree liberate dai binari erano previsti grandi assi di scorrimento larghi da 50 a 100 metri, «che avrebbero favorito una opportuna lottizzazione». E cioè la bellezza di 150 mila vani da realizzarsi in 25 anni.
Per il porto canale si rispolverava il piano “Rimini Nord” del 1916, che comprendeva una vasta area industriale a San Giuliano Mare e la costruzione di una darsena (all’incirca dove poi sarà realizzata quella attuale) e di un invaso a monte del Ponte di Tiberio, con il Marecchia attraversato da un nuovo ponte.
A sud-est, nell’area dove oggi sorgono il Colosseo, il 105 Stadium e Le Befane, si pianificava la costruzione di un nuovo quartiere destinato al terziario pubblico e privato. Interventi decisi anche sul centro storico, con allargamento delle strade e riallineamento degli edifici.
L’arco di Augusto avrebbe ritrovato nuovamente delle costruzioni al suo fianco, ripristinando la situazione originaria e annullando l’isolamento “monumentale” voluto all’epoca del Fascismo.
Sarebbe nato del verde in piazza Malatesta intorno a Castel Sismondo, e poi all’Arengo, al Teatro (naturalmente ricostruito) e fino a Sant’Agostino, creando un inedito parco urbano. Grazie a ciò, sarebbero stati valorizzati al massimo i ritrovamenti archeologici, che si davano per scontati.
E i soldi per fare tutto ciò? Come scrive Pandolfi nella sua tesi, «Il Comune avrebbe dovuto espropriare i terreni necessari alla realizzazione del piano e concederli alla società di costruzione a prezzo di esproprio, quest’ultima li avrebbe edificati e rivenduti a prezzo di mercato e la realizzazione sarebbe andata a compensare gli sforzi economici della società stessa».
La quale società, però – S. A. edilizia Comm. E. Alessandroni & C., con sede in Roma – non riuscì a convincere il Comune di essere in grado di sostenere economicamente l’operazione. Insomma, su una previsione di costi complessivi di 14 o 15 miliardi, la società poteva mettere 30 milioni. Per non dire di altre perplessità che il piano suscitava: l’entità degli espropri tale da richiedere un atto del governo nazionale, il monopolio praticamente concesso ad Alessandroni perfino sulle forniture dei materiali, e moltissimo altro.
Il 3 agosto del 1946 il progetto “La Nuova Rimini” venne accantonato.