23 agosto 1198 – Arriva Marcovaldo e i riminesi le prendono di santa ragione
23 Agosto 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 23 agosto 1198, dopo laboriose trattative, «Ravegnani, Cesenati e Riminesi, tornarono a perfettissima pace» (Luigi Tonini, “Rimini dal principio dell’era volgare all’anno MCC“). Cos’era successo? Si tratta dei consueti disordini locali conseguenti ai cambiamenti dei vertici. Tanto più che nel 1196 era morto improvvisamente l’imperatore Enrico VI e all’inizio di quel 1198 anche il papa Celestino III. E se a quest’ultimo era succeduto l’energico Innocenzo III, Enrico con la sua dipartita aveva dovuto lasciare l’appena conquistato regno di Sicilia nel caos (l’erede al trono Federico, il futuro “Stupore del mondo”, aveva solo tre anni) e il soglio imperiale alla parte avversa: il guelfo Ottone IV di Brunswick, favorito dal pontefice a discapito di Filippo di Svevia, ghibellino e fratello del defunto imperatore. Nel rimescolamento generale delle carte, ciascuna città e signoria cercava di ritagliarsi più spazio, privilegi, autonomia. Figurarsi fra Romagna e Marche, dove la situazione era più confusa che mai, visto che – vero? falso? – in punto di morte Enrico avrebbe lasciato al Papa la Marca di Ancona in remissione dei suoi molti peccati. Innocenzo aveva ricevuto l’omaggio con grato animo e inviato il suo Legato Carsendino (o Carsidonio) a prenderne possesso.
Se non che da quelli parti c’era qualcuno che aveva fatto un giuramento. Anzi, ne aveva fatti tre. Era Markward von Annweiler, detto in Italia Marcovaldo (o anche Marcoaldo, Marcoalto o Marquardo di Annevillir). Di umili origini, apparteneva alla classe subalterna dei ministeriali, destinata al servizio leale dell’amministrazione dell’impero in ogni possibile ruolo. Più precisamente, il ministeriale prestava giuramento di fedeltà alla casata imperiale e per Marcovaldo ce n’era una sola: gli Hohenstaufen. Egli aveva giurato di fedelmente ricoprire tale versatile incarico al Barbarossa, emergendo come una delle più importanti figure dell’amministrazione sveva e partecipando con lui alla terza crociata in cui Federico aveva perso la vita in Turchia. Nel 1190 rinnova il suo giuramento al successore del Barbarossa, suo figlio Enrico VI. Il nuovo imperatore lo nomina duca di Ravenna, margravio di Ancona e conte d’Abruzzo.
Morto Enrico, Marcovaldo sostiene inizialmente la vedova Costanza d’Altavilla, ma in seguito si ritrova suo nemico visto che lei propende per la propria famiglia d’origine, normanna e guelfa. Ormai cinquantenne, Marcovaldo ha invece giurato per la terza volta la sua fedeltà all’ultimo degli Hohenstaufen: il piccolo Federico di Svevia, di cui diverrà prima tutore e poi reggente del regno. Non gli fanno battere ciglio il bando dalla Sicilia emesso da Costanza, le scomuniche di Celestino III e poi di Innocenzo III.
Carsendino in effetti irrompe nelle Marche e se impossessa. Il 2 febbraio 1198, Rimini e Ravenna da una parte, Ancona, Fermo, Osimo e Senigallia dall’altra, firmano un patto di reciproco aiuto «contra Marchoardum» giurando di combatterlo senza quartiere: i primi dal Foglia al Tronto e al Ducato di Spoleto; i secondi dal Foglia alla Rotta di Ficarolo al Reno. Sono tutte o quasi città nominalmente ghibelline, eppure per il Legato tutto sembra procedere al meglio. Forse proprio perchè il suo potere al momento appare ai potentati locali più debole di quello imperiale, che invece già pare incline a quella politica accentratrice che poi si dispiegherà appieno con Federico II.
Tutto va bene per Carsendino finchè non bussa alle porte di Cesena e poi a quelle di Forlì. Qui gli viene risposto che sotto l’Impero si trovano benissimo. Pertanto fra le due città e il resto della Romagna (più gli alleati marchigiani) inizia il consueto stillicidio di tagli di vigne, incendi di uliveti, razzie di bestiame e raccolti, prese di ostaggi, agguati, uccisioni e susseguenti catene di vendette. Minacce e vie di fatto del Legato, spirituali e temporali, non sortiscono alcun effetto su Cesenati e Forlivesi.
All’opposto il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, condotte da un tal Martino, le schiere di Marcovaldo fanno la loro inopinata comparsa nel Riminese. Stanno andando a soccorrere gli amici Cesenati.
Anche i Riminesi hanno appena fatto un giuramento. Si attestano dunque attorno alla pieve di Santa Cristina per sbarrare il passo alle aquile imperiali. «Ma al menar delle mani – scrive il Tonini – i Riminesi non ressero, e furono respinti da Martino fino alla Porta di S. Andrea, e molti furono morti, e molti furono presi». Intanto i Cesenati avevano «preso e disfatto Longiano, Castello nobile e ben munito del contado e della Diocesi riminese». Per il consueto principio che vede nel vicino di casa il peggiore dei nemici, Longiano era e sempre sarà tanto ostile a Cesena quanto fedelissima alla più remota Rimini: nonostante la dura lezione, o anzi per la rabbia di averla subita, già il 4 maggio dell’anno successivo ben 184 Longianesi si sarebbero presentati nel Consiglio di Rimini per rinnovare il giuramento di “stare ai precetti del Podestà riminese (allora tal Albrigitto) e fare pace e guerra a volontà sua”, come narra sempre il Tonini.
I soccorsi di Marcovaldo hanno dunque raggiunto Cesena. Fedeli al loro giuramento, si muovono allora i “Ravegnani”, per l’occasione aiutati da Bolognesi e Faentini, più 700 militi lombardi. Si guerreggia dalle parti di Imola, poi tutti si riducono intorno a Cesena. A maggio lo stallo è totale.
Il podestà di Ravenna, Milone degli Ugoni, propone di farla finita. La sua mediazione però va per le lunghe e i Faentini salutano la compagnia. Milone accusa i Riminesi (che fin lì le han solo prese e vorrebbero almeno recuperare qualcosa) di porre troppi veti e tergiversare all’infinito. Alla fine si trova un accordo sulla base dello status quo, mentre anche Innocenzo sta venendo a più miti consigli con Marcovaldo, che pure aveva fulminato quale «nemico di Dio e della Chiesa e persecutore del Regno».
L’anno dopo, l’anziano siniscalco avrebbe visto revocare le scomuniche e sarebbe potuto tornare indisturbato in Sicilia, ormai celebrato di corte in corte in tutta Europa, additato come perfetto modello di inflessibile fedeltà cavalleresca.
Nell’immagine di apertura, affresco nella Sala di Giustizia della Rocca di Angera (Varese), 1277.