24 ottobre 1786 – Nasce a Rimini Luigi Domeniconi, mattatore del teatro romantico
24 Ottobre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Luigi Domeniconi nasce nei pressi di Rimini il 24 ottobre 1786, ultimo degli otto figli di un fattore, in una «onesta e agiata famiglia» di costumi particolarmente rigidi. Come accadeva allora agli ultimogeniti, fin da piccolo è destinato alla vita religiosa; Luigi a nove anni è quindi alunno del seminario di Rimini. Due anni dopo, nel 1797, con l’arrivo dei Francesi e la nascita della Repubblica Cispadana l’istruzione religiosa viene soppressa; il padre affida allora il ragazzo alle cure di un domenicano.
Scrive Roberta Ascarelli nel “Dizionario Biografico degli Italiani” che nonostante questa rigorosa educazione proprio allora Domeniconi «scoperse il fascino del teatro e iniziò a coltivare di nascosto questa passione, frequentando le rappresentazioni dei filodrammatici cittadini e leggendo avidamente le opere di Metastasio».
Ma Luigi viene scoperto, allontanato dalla carriera ecclesiastica e costretto a una «vita randagia» e di sotterfugi. Finisce a Senigallia e prende a vagare con compagnie teatrali di infimo ordine, «partecipe di molti misfatti della vecchia guitteria…, di molte burle di cattivo genere che più tardi avrebbe giudicate come offese alla dignità artistica».
Jesi, ancora Senigallia, Ancona, Osimo, Bevagna: la fortuna è alterna. Il suo «stile enfatico e concitato» a volte piace, altre gli procura uragani di fischi. Si improvvisa mimo e ballerino, ma l’impresario scappa con la cassa. I superstiti della compagnia finiscono errabondi per i paesi della Toscana, ma qui per una «frase sconveniente pronunciata dal Domeniconi» si abbatte la censura e ciascuno va per la sua strada.
Il riminese cerca allora di farsi strada a Firenze, fra qualche successo e una vita sempre grama, sulla quale poi sarebbe fiorita tutta una serie di aneddoti, veri come inventati. A questa seconda categoria apparterebbe il più celebre, quando rappresentò, a capo di una miseranda accolita di guitti, il Filippo di Vittorio Alfieri: «Conoscendo il suo pubblico, pensò di mandare a letto allegri quei bravi coloni e all’improvviso mutò la chiusa terribilmente tragica di quel lavoro in “lieto fine”. Il caso volle che alla rappresentazione fosse presente, in incognito, l’Alfieri stesso; il tremendo astigiano si precipitò sul palcoscenico, improvvisato su delle botti, e bastonò di santa ragione il Domeniconi». Se non che, purtroppo o per fortuna, «Alfieri era morto prima che il D. iniziasse a calcare avventurosamente le scene».
Nel 1811 a Firenze si associa finalmente a «buoni attori che la guerra aveva costretto a rimanere in Toscana: Elisabetta Baldesi Marchionni, Antonio Belloni, Ferdinando Meraviglia». Fra dubbi e rivalità, Domeniconi resta nella compagnia per dieci anni, non azzardandosi a proporsi come primo attore nonostante il pubblico ormai lo reclami sempre di più. Finché arriva l’uomo della svolta: si chiama Silvio Pellico.
Il futuro martire dello Spielberg aveva scritto la sua Francesca da Rimini, ma era stata stroncata niente meno che da Ugo Foscolo. Pellico si rivolge allora a Carlotta Marchionni, 19enne figlia di Elisabetta di straordinario talento, e dopo qualche rimaneggiamento (secondo alcuni, anche da parte del Domeniconi) il 18 agosto 1815 la tragedia ottiene un grande successo a Milano. Domeniconi, nonostante la figura tozza e i tratti pronunciati, è un Paolo il bello che piace molto. E quando la compagnia lo vorrebbe relegare nei panni del “tiranno”, Pellico in persona arriva a minacciare di ritirare i diritti se Paolo non sarà impersonato dal riminese.
La Francesca da Rimini di Pellico diventa un successo europeo. Nel 1820 Lord Byron la traduce in inglese. E la carriera di Domeniconi finalmente decolla, nonostante l’interruzione per un malanno alla voce nel 1818. Nel 1832 forma una sua compagnia insieme a Ferdinando Pelzet, con Maddalena Pelzet prima attrice, Luigi Taddei caratterista. «Come afferma il Costetti, il D. “levava ovunque romore di fanatismo“». Non sempre la sua recitazione «declamatoria e ampollosa» trova consensi, specie presso la critica. Ma la maggior parte del pubblico vuole proprio questo e non lo apprezza più quando dimostra di saper essere anche «sobrio, verecondo, semplice, attore veramente preclaro».
Insofferente di tutti i vincoli della censura, facendo tesoro della sua esperienza su palchi di ogni risma, nonostante una cultura approssimativa diventa consigliere dei drammaturghi che scrivono e riadattano opere appositamente per lui, come fa G. B. Niccolini, con Giovanni da Procida e Ludovico il Moro, e di nuovo il Pellico con l’Eufemio di Messina (vietato della censura).
Ormai interpreta un vasto e prestigioso repertorio, dal cavallo di battaglia Francesca da Rimini del Pellico, a Pia de’ Tolomei di Marenco, Giulietta e Romeo di Shakespeare, La locandiera e Le gelosie di Lindoro di Goldoni, Maria Stuarda di Schiller.
Finalmente, verso il 1850, Domeniconi riesce a saldare tutti i debiti. E «per altri dieci anni, cioè a tutto il 1860, riuscì a sostenersi sempre con una primaria compagnia, e col suo credito di uomo onestissimo».
Poi però arrivano tre anni disastrosi; sia come attore che come direttore viene giudicato «superato, incapace di rinnovare lo stile e il repertorio».
Nella primavera del 1863, a Roma, viene colpito da un leggero colpo apoplettico. «Ristabilitosi, venne decorato nella quaresima di quell’anno cavaliere dell’Ordine sabaudo dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Ma un nuovo colpo lo costrinse a Viterbo, nel corso dell’estate, ad abbandonare le scene. Si ritirò a Roma, dove visse gli ultimi anni circondato dall’affetto e dall’aiuto dei suoi attori di un tempo».
Luigi Domeniconi, «l’ottimo artista», «uno dei capocomici più acclamati del XIX secolo», muore a Roma nei primi giorni dell’agosto del 1867.
A lui la città di Rimini ha dedicato la lunga strada che a Viserbella corre lungo la ferrovia da via Gebel a via Venerin Grazia.
(nell’immagine di apertura, da sinistra: Luigi Domeniconi, Maddalena Pelzet, Luigi Tadder)