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25 agosto 769 – Ai tempi che Berta filava, Ravenna si sente pari a Roma e vuole l’indipendenza


25 Agosto 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Ai tempi che Berta filava… si decidevano le sorti della Romagna, dell’Italia e di un bel pezzo d’Europa.

La leggenda fu raccontata per primo nel 1270 dal menestrello Adenet le Roi (e per ultimo da Rino Gaetano) nel poema Li Roumans de Berte aus grans piés: “il romanzo di Berta dal grande piede”. Vi si narra di una principessa che nell’essere condotta alle nozze fu vittima di uno scambio di persona: mentre la figlia di una dama di compagnia che le somigliava divenne sposa del re, la meschina finì nella capanna di un poverissimo boscaiolo dove si guadagnò da vivere filando senza posa. Ma un bel giorno, grazie al suo “piedone” più lungo dell’altro venne riconosciuta e collocata sul trono che le spettava.

La formella scolpita del duono di Fidenza che qualcuno ha intepretato come Berta fra due fusi: in realtà raffigurerebbe l’ascesa al cielo di Alessandro, innalzato da due grifi adescati da pezzi carne su due spiedi

La storia è invece quella di Bertrada di Laon, moglie di Pipino il Breve e madre di Carlo Magno. Tempi già lontanissimi e ammantati di fiaba nell’epoca dei trovatori e per noi apparentemente del tutto estranei, tanto ci sembrano ormai irraggiungibili dopo quasi 1.200 anni. Eppure moltissimi di quei fatti cruciali si svolsero proprio dalle nostre parti, Rimini compresa.

E dunque il 25 agosto 769 morì Sergio, Arcivescovo di Ravenna fin dall’anno 744. Il clero ravennate scelse Leone come  successore. La sua elezione fu però contestata da un laico di nome Michele, scriniarius ovvero notaio delle curia arcivescovile, con il sostegno militare di Maurizio, il dux della Pentapoli marittima. Maurizio era il duca di Rimini, che della Pentapoli (le cinque città: oltre a Rimini, Pesaro, Fano; Senigallia, Ancona) era allora il capoluogo. E parteggiava per Desiderio, re dei Longobardi.

L’imperatore di Costantinopoli ha ormai perduto per sempre la sua “Romània”. I Longobardi in due secoli hanno divorato morso a morso il dominio “bizantino” in Italia. La penisola è ormai quasi unificata e ha per capitale la longobarda Pavia. Restano al basileus solo Roma, Venezia (che però già pensa e agisce per conto proprio), Napoli, parte della Puglia e della Calabria, le grandi isole Corsica esclusa. Ma la capitale dell’Esarcato d’Italia, Ravenna, è caduta. Sconfitti dai Franchi chiamati dai papi, i Longobardi hanno promesso di restituire Ravenna e la Pentapoli non all’imperatore ma al papa. Ma fra il dire e il fare come sempre ce ne passa.

Ravenna antica come la immaginava Coronelli nel 1708 circa

A Ravenna il re dei Longobardi e alcuni cittadini eminenti (iudices Ravennati) riescono a imporre Michele quale arcivescovo,  mentre Leone viene arrestato e rinchiuso in una prigione a Rimini. I fautori di Michele cercano di rabbonire papa Stefano III con offerte di doni affinché lo consacri definitivamente nella carica, ma il pontefice rifiuta. E Leone deve starsene prigioniero del duca Maurizio a Rimini per almeno un anno.

A questo punto entra in scena Berta, ovvero la regina vedova di Pipino il Breve re dei Franchi. Bertrada di Laon giunge nell’Urbe in visita al pontefice e annuncia candidamente a papa Stefano III il suo desiderio di far sposare il suo figlio primogenito Carlo con la figlia del re longobardo Desiderio. Nell’Adelchi di Alessandro Manzoni si legge che quella figlia si chiamava Ermengarda. In realtà nessuno dei contemporanei ha riportato il suo vero nome. Forse la principessa fu vittima di una damnatio memoriae, oltre che di un infame ripudio da parte di Carlo Magno: ogni sua traccia doveva essere cancellata. Fra i suoi ipotetici nomi si sono fatti quelli di Desiderata (ma probabilmente era solo il patronimico), e Berterada.

Il sepolcro di Berta di Laon (Berte aus grands piés) e Pipino il Breve nella Basilica di Saint-Denis

Evidentemente Berta ha in mente un piano per comporre pacificamente il contrasto fra Longobardi e Franchi che si sta trascinando già da almeno 15 anni senza che nessuno riesca a prevalere. Conflitto suscitato dai papi; ma Stefano III, sebbene aborrisca questo aggiustamento, non può opporsi quando come alternativa può offrire solo un’ennesima guerra. Tanto più che fra le contropartite c’è Ravenna. Appena il pontefice, pur obtorto collo, dà il su via libera, il figlio di Berta, Carlo futuro Magno, invia il suo missus Ugobaldo a Ravenna dove arresta Michele per poi portarlo a Roma. Leone viene liberato ed anch’egli può andare a Roma, dove è solennemente consacrato.

Se non che pure Leone ha un suo progetto. Nel documenti inzia a firmarsi Esarca d’Italia, esattamente come il suo predecessore Sergio, che per queste sue velleità era stato condannato e incarcerato dal papa. Anche lui ritiene che Ravenna è alla pari di Roma e non deve affatto soggiacere al trono di Pietro, godendo della medesima dignità imperiale.

Statua di Bertrada, dello scultore Eugène Oudiné nei Giardini del Lussemburgo

Del resto a Roma il papa cammina sul filo del rasoio. Deve barcamenarsi tra la nobiltà cittadina che reclama la propria autonomia, la fazione dei Franchi e quella dei Longobardi. Ma Stefano muore nel febbraio 772 e il successore Adriano I, che forse apparteneva alla famiglia dei conti di Tuscolo, non ha di questi dubbi. Si schiera nettamente per i Franchi e si adopera in ogni modo per rimuovere l’influenza di Paolo Afiarta, potente capo della fazione longobarda. Lo allontana mandandolo in missione diplomatica a Pavia e una volta partito conduce un’inchiesta sulla sua responsabilità riguardo ai gravi fatti accaduti durante il pontificato precedente, quando erano stati assassinati il primicerio (capo dei notai pontifici) Cristoforo e poi suo figlio Sergio, a loro volta probabili responsabili dell’omicidio del presbitero Valdiperto, capo dei filo Longobardi.

Saputo quanto accadeva a Roma prima ancora che l’Afiarta giunga a Pavia, Desiderio rompe gli indugi, attacca i territori esarcali e si impadronisce di Ferrara, Comacchio e Faenza. Il prossimo obiettivo non può essere che Ravenna e allora Leone, terrorizzato, dismessa ogni aspirazione autonomista scrive ad Adriano per invocare aiuto.

Intanto a Roma il papa aveva messo insieme le prove per processare Paolo. Il papa ordina a Leone di arrestarlo allorché, tornando dalla sua missione a Pavia sarebbe passato da Ravenna o da Rimini. In un’ulteriore lettera, Adriano precisa che il prigioniero deve essere mandato in esilio a Costantinopoli. Ma Leone, non si sa se per eccesso di zelo o per chiudere una bocca che potrebbe raccontare troppe cose, appena riesce a mettere le mani su Paolo proprio a Rimini, invece di inviarlo sul Bosforo lo vuole a Ravenna e gli fa tagliare la testa.

Roma verso la fine del XIII secolo nella mappa di Gerasio di Tilbury

Nella primavera del 773 l’esercito di Carlo, chiamato dal papa, scende in Italia per farla finita con i Longobardi. Intanto il ringalluzzito Leone rispolvera il suo disegno di rendersi indipendente da Roma, imponendo sui territori dell’ex Esarcato uomini suoi al posto di quelli del papa: così a Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, Comacchio e Ferrara. A tale scopo si fa più filo-franco del papa stesso. E quando Carlo valica le Alpi per attaccare i Longobardi (agosto-settembre del 773), manda in suo aiuto il diacono Martino, che in Val di Susa indica al re franco la strada più sicura per aggirare lo schieramento difensivo longobardo posto alla chiusa di San Michele. Il 5 giugno 774 cade Pavia e Desiderio si deve consegnare ai Franchi. Termina così il plurisecolare regno longobardo, il primo stato di un’Italia pressochè unita. Dovranno passare oltre mille anni per vederne un altro davvero indipendente, con Vittorio Emanule II nel 1860.

Carlo Magno strappa Ansedonia ai Longobardi e la dona all’Abbazia delle Tre Fontane (affresco nel cosiddetto Arco di Carlo Magno all’ingresso dell’Abbazia, sec. XII-XIII)

E l’Arcivescovo-Esarca Leone? Invia un’ambasceria al re dei Franchi, cui segue nel 775 una visita ufficiale. Se ne torna pertanto a Ravenna in una posizione inattaccabile. E a nulla valgono le quattro lettere che papa Adriano spedisce a Carlo fra il 774 e il 776, nelle quali il papa accusa l’Arcivescovo di usurpare il pieno dominio delle città dell’Esarcato e della Pentapoli, che erano state promesse a San Pietro fin dai tempi di Pipino, padre di Carlo. Con perfetta faccia di bronzo, Leone replica serafico che era stato il papa stesso ad autorizzare queste azioni. E Carlo ha tutto l’interesse nel dargli retta, non avendo in realtà alcuna voglia di regalare al papa quella che ormai viene detta Romagna. Se era dell’imperatore dei Romani che sta a Costantinopoli, a maggior ragione può benissimo appartenere al Sacro Romano Impero d’Occidente e per esso amministrata dall’amico e fido Arcivescovo. Leone muore serenamente a Ravenna il 14 febbraio 777 nel pieno dei suoi poteri. I papi dovranno sudare per altri cinque secoli prima di riuscire a sancire il loro dominio sulle terre loro promesse da Pipino il Breve il 14 aprile 754.

Benedetto Antelami e allievi: “Carlo Magno di ritorno in Francia dopo aver liberato Roma dai Saraceni”, Duomo di Fidenza, sec. XII-XIII

(nell’immagine in apertura: pannello in avorio della Cattedra di Massimiano primo arcivescovo di Ravemma, VI secolo)