25 marzo 1831 – Rimini, la battaglia delle Celle
25 Marzo 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
La battaglia delle Celle, o battaglia di Rimini, fu combattuta il 25 marzo 1831 tra i volontari delle Province Unite Italiane guidati dal generale Carlo Zucchi e le truppe austriache del maresciallo Bentheim.
Erano circa 1500 i patrioti italiani che affrontarono 5000 austriaci. E li respinsero più volte prima di doversi ritirare verso Ancona. Fu la prima volta che delle truppe unicamente italiane si batterono contro l’esercito austriaco, tenendo loro testa.
Era successo tutto ad un’incredibile velocità. Dopo i moti che nel 1830 avevano sconvolto mezza Europa, anche le popolazioni delle Legazioni di Ravenna, Forlì, Bologna e Ferrara erano insorte contro il Papa, sovrano dello Stato della Chiesa. Il 3 febbraio 1831 si erano sollevati per primi i Ducati di Modena e Parma, poi l’insurrezione aveva raggiunto lo stato pontificio: oltre a Bologna e la Romagna, anche le Marche, l’Umbria e il Lazio settentrionale. Il 26 febbraio 1831, in un congresso a Bologna, fu decretata l’emancipazione totale di tutte le provincie insorte dal dominio temporale dei Papi.
Il nuovo pontefice, Gregorio XVI, poteva chiedere aiuto solo all’Austria; e lo fece. Dissuaso il nuovo re francese Luigi Filippo dall’intervenire, l’imperatore austriaco Francesco I inviò allora un’armata che, attraversando il Po, prese possesso di prima di Modena, poi di Ferrara e Bologna, obbligando alla ritirata i patrioti emiliani e romagnoli. Il generale Carlo Zucchi di Reggio Emilia, un reduce delle guerre napoleoniche, venne posto al comando delle milizie volontarie e ne ordinò la concentrazione a Rimini. Giunsero circa 700 uomini, mentre altri contingenti al momento dell’arrivo degli imperiali erano ancora in marcia.
Verso le cinque pomeridiane del 25 marzo le avanguardie austriache del generale Mengen, costituite da drappelli di ussari, arrivarono a contatto con la retroguardia dei liberali alle Celle, l’importante bivio dove la via Popilia (o Romea) proveniente da Ferrara e Ravenna si congiunge con la via Emilia che arriva da Bologna.
Il primo scontro coinvolse due compagnie di fucilieri volontari comandati dal capitano Armari, che marciando da Ravenna lungo la Popilia andavano a congiungersi al corpo principale. Trovando la strada sbarrata dagli Austriaci furono costrette al combattimento per aprirsi un varco.
Il capitano Armari fu ferito e preso prigioniero, ma il suo contingente riuscì a passare e a raggiungere Rimini. Gli ussari furono quindi fermati da un battaglione comandato dal maggiore Pistocchi.
Seguì una seconda carica dei cavalleggeri austriaci, di nuovo respinta dalla fanteria italiana.
Un terzo assalto, a cui parteciparono un intero squadrone di ussari, varie compagnie di cacciatori a cavallo con l’appoggio di due squadroni, fu ancora arrestato dal battaglione di Pistocchi disposto a colonna serrata.
Richiamati dal clamore dello scontro accorrevano intanto numerosi volontari, scarsamente organizzati, in parte armati di soli fucili da caccia e di due soli cannoni, quelli che stavano a guardia di Porta San Giuliano. Queste forze raccogliticce ingaggiarono un contrattacco che durò circa tre quarti d’ora.
Così il generale Zucchi descrive quella giornata nelle sue memorie: «Il rombo del cannone nemico non tardò a mettere la maggiore confusione nei volontari, che per nulla sospettavano di esser così prossimi al nemico. Fortunatamente io aveva allogato fuori della città all’imboccatura delle due strade, che conducono a Cesena ed a Ravenna il prode e intelligente generale Olini a capo d’un forte retroguardo con due cannoni. Egli bravamente respinse i primi assalti. Io con circa duecento uomini guidati dal colonnello Ragani e con due squadroni di dragoni condotti dal maggiore Molinari sortii dalla città a sostenere i nostri già alle prese col grosso degli Austriaci, e onde, rannodandomi seco loro, far testa al cozzo nemico intanto che la ritirata si potesse riprendere con qualche ordine. La pugna fu gagliarda e prolungata per un’ora. Gli Austriaci si trovarono costretti a indietreggiare, lasciando sul terreno molti morti».
Il combattimento cessò dopo circa quattro ore quando ormai era calata la notte, che permise il ritiro dei volontari italiani all’interno delle mura di Rimini. Il giorno seguente Zucchi poté proseguire la ritirata verso Fano. Il generale dopo varie traversie sarebbe stato catturato in mare dagli austriaci, e proprio da Francesco Bandiera, capitano della flotta austriaca e padre dei fratelli Bandiera. Condannato a morte, la pena gli fu tramutata 20 anni di carcere duro in fortezza. Nel 1848 era ancora prigioniero a Palmanova del Friuli, quando la rivoluzione patriottica lo liberò e, ancora una volta (aveva ormai 71 anni), lo pose al comando di una improbabile turba di volontari. E ancora una volta gli Austriaci furono respinti.
Riguardo la battaglia della Celle, le versioni sulle forze in campo e sul numero delle perdite sono discordanti. Tutte le fonti confermano che gli Austriaci avevano 5 mila fanti e 500 cavalieri; ma non è chiaro quanti cannoni. Secondo Pietro Ortolani (Rivoluzione del 1831, ossia Il primo anno del pontificato di Gregorio 16. raccontato da P. Ortolani, Tipografia e Libreria Pirotta e C., Milano, 1848) al combattimento parteciparono circa 3000 volontari italiani. Ma Antonio Vesi (Rivoluzione di Romagna del 1831. Narrazione Storica corredata di tutti i relativi documenti, Tipografia Italiana, Firenze, 1881) scrive che il generale Zucchi aveva solo 1500 armati. Infine nelle sue memorie (pubblicate nel 1861) lo stesso generale Zucchi scrive di aver concentrato a Rimini circa 4000 uomini e afferma, a spiegazione della sua ritirata notturna, che «starsi più a lungo nelle difese contro un nemico dieci volte più forte sarebbe stata una follia».
Stando ad Antonio Coppi (Annali d’Italia dal 1750 compilati da A. Coppi Tomo VI -Dal 1830 Al 1845, Tipografia Salviucci, Roma, 1851) le perdite assommarono a 15 morti e trenta feriti tra gli italiani e circa altrettanti tra gli austriaci. Il Vesi è più vago sui numeri, «Molti morti contarono gli alemanni; pochi gl’insorti», però indica fra i caduti di parte austriaca il tenente Kamiseh e fra i feriti il principe di Liechtenstein e i capitani Mathia e Burla; gli stessi nominativi sono indicati da Zucchi, per il quale le perdite italiane «furono di poco conto», a differenza dei «molti morti» lasciati dagli austriaci.
Come si comprende, dal punto di vista militare si trattò appena di una scaramuccia. Eppure il suo valore simbolico e politico fu grandissimo, fino ad avere una risonanza addirittura europea.
Secondo Vesi, lo stato d’animo di chi aveva partecipato era infatti di tale tenore: «Questa opposizione, fatta ad un nemico grosso e potentissimo, per què giovani, non usi alla guerra e forniti di un immenso coraggio, tenne sembianza di una vittoria. Tutti si rallegravano; tutti gratificavano a se stessi colle speranze dell’avvenire».
Ma fu Giuseppe Mazzini, al tempo degli eventi ventiseienne ed esule in Francia, che lo descrisse ed esaltò nella sua prima opera politica: “Une nuit de Rimini en 1831″ (presto tradotta come “Una notte di Rimini nel 1831″) dove lanciò il suo programma politico per l’Italia: Unità, Indipendenza e Repubblica. Per Mazzini questo scontro aveva dimostrato che gli italiani avrebbero dovuto fare affidamento solo su sé stessi per liberarsi dal giogo straniero e dai regimi di vecchio stampo che dominavano la penisola, senza aspettarsi o richiedere aiuti a potenze straniere.
Il libello ebbe risonanza europea. Perchè oltre all’iaspettato ardore degli Italiani c’erano altri aspetti della vicenda, assai più interessanti agli occhi delle cancellerie francesi, prussiane e inglesi, ma perfino russe e turche. Giungeva la prova che gli Asburgo, con il loro millenario e multinazionale Sacro Romano Impero, potevano essere messi in difficoltà e perfino battuti da un modesto ma motivato moto patriottico: dopo tutto, Napoleone aveva le sue ragioni quando affermava che«l’esercito austriaco sembra esistere solo per essere sconfitto».
Inoltre, risultava evidente che i Ducati emiliani satelliti dell’Austria e lo Stato Pontificio erano edifici tarlati al punto di poter crollare da un giorno all’altro alla minima scossa. Si apriva perciò la partita per colmare quegli imminenti vuoti di potere, con quel che ne poteva conseguire negli equilibri continentali. La generale freddezza che il resto d’Europa riserverà all’Austria per tutto il Risorgimento italiano inizia proprio da questo piccolo episodio riminese.
In quello stesso 1831 Mazzini fondò la Giovine Italia nel tentativo tradurre in pratica le sue idee espresse raccontando di Rimini.