25 ottobre 1440 – Rimini diventa Venezia e la fiumana spazza via la porta del Borgo San Giuliano
25 Ottobre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Come scrive lo storico riminese Cesare Clementini un paio di secoli dopo i fatti, nel 1440 “alli 25 dello stesso mese d’ottobre, pe le continue piogge s’ingrossò straordinariamente la Marecchia, fiume: ma la forza d’un rabbioso Levante, che spingeva il reflusso del Mare, impediva lo sboccamento del fiume, e riteneva il corso, rigettandolo addietro: ond’egli alzandosi, e passando sopra gli argini, e le basse sponde, si dilatò in guisa per la campagna sopra Rimino, andandosi a congiungere con l’altro fiume, detto Ausa, il quale bagna la Città verso Levante, che pareva più tosto mare, che fiume, e non solo giunse, e penetrò dentro la Città medesima per la porta di S. Andrea (Porta Montanara): ma la cinse in maniera, che Rimino somigliava una piccola Venezia, vedendosi dentro, e fuori d’ogn’intorno tant’acque. Levò detta innondazione tutte le barche, le quali erano in porto, se ben cariche, portandole dalle bande ne’ campi, all’incontro del Convento di San Domenico (nell’area attualmente occupata via dei Mille e dintorni), altre in mezo al Borgo San Giuliano, una dentro il Cortile più vicino la Chiesa di S. Nicolò, alcune sopra i tetti della basse case, e molte sù la piazza di detta Chiesa due braccia sopra gli altari, gettò a terra più case in detto porto, & alcuni tetti restarono sepolti nell’arena, & immondicia, lasciata dal fiume”.
E ancora: “Avvennero danni simili nel Borgo di S. Giuliano, portando in oltre la detta fiumana in Mare la bottega della gabeletta, che mai più fu trovata”: ovvero la garitta dove si riscuotevano i dazi addossata a Porta San Giuliano nel borgo omonimo. Conclude Clementini: “Non v’era memoria d’altra uguale, non che maggiore, e fu stimato, c’apportasse danno di sei mila scudi, che in quei tempi era notabile quantità”.
Il Borgo San Giuliano era infatti protetto da mura almeno dal 1177, notevolmente allargate a partire dal 1352 per includervi l’Orto dei Cervi o dei Daini, giardino e luogo di caccia dei Malatesta, che sarebbe rimasto senza edifici praticamente fino al secolo scorso.
La cerchia murata del Borgo aveva due porte: quella detta di San Giuliano che si apriva sulla Via Emilia, l’altra chiamata Gramignola, presso l’attuale Villa Maria nella cerchia più antica. Molto tempo dopo, nel ‘700, fu aperta nella cercia più ampia delle mura porta Portese o Portuense o Porticella, che si vede ancora, sebbene piuttosto malridotta, accanto alla chiesa della Madonna della Scala. Deve le forme attuali, compreso lo stemma del Comune di Rimini sul fornice, alla ristrutturazione (o meglio riapertura, perché nel frattempo era stata tamponata) decisa 1708; al termine dei lavori, che si protrassero per una trentina d’anni, si chiamò Gervasona.
Porta San Giuliano ai tempi della descrizione del Cardinale Anglico de Grimoard (1371) era custodita in tempo di pace da “due famuli”, ovvero sorveglianti armati di condizione servile. Era munita di un ponte levatoio, che scavalcava il Dosso. Si trattava di un fossato artificiale che si diramava dal Marecchia per poi costeggiarlo fino al mare; lungo il suo corso è documentato almeno un mulino e probabilmente non doveva essere l’unico apparato che sfruttava il flusso delle acque. Nei pressi del Borgo, il Dosso percorreva il tracciato dell’attuale via Bissolati. Canali di questo genere erano presenti su entrambe le sponde del fiume.
Come puntualmente ricostruisce Paolo Semprini, il Dosso “durato a cielo aperto fino alla metà del secolo scorso ed ora del tutto inesistente in quanto spezzettato ed immesso in fognatura stradale, nell’XI secolo, ossia quando il muro che costeggiava venne costruito da un certo Martinus Zagonis che non è dato sapere bene chi fosse, sfociava in mare trenta o quaranta metri appena dopo aver superato le mura di via Madonna della Scala”.
Lo stesso Semprini ci ricorda che “nel territorio comunale di Rimini tra il XII e il XV secolo coesistevano due porte entrambe intitolate ufficialmente a S.Giuliano, una in città chiamata anche Occidentale o Gallica, dei Santi Pietro e Paolo, di San Piero, di S.Giuliano e di Bologna, e un’altra nel borgo S.Giuliano”.
Di lì a poco, nel 1442 ma in piena estate, ci risiamo. Di nuovo il Clementini: “Alli tre d’Agosto circa li 21. ora, s’oscurò il Sole sopraggiungendo in un subito un terribilissimo vento da Ponente, con acqua, e tempesta grossissima, in foggia di pagnotte da venticinque, e trenta oncie di peso (un’oncia valeva 24 grammi!), come si legge negli Annali di Rimino, e con tanto furore, che dubitò, che la Città subbissasse, e finisse il mondo; e se continuava una sol ora, al sicura gettata a basso la maggior parte de gli edifizi di Rimino, cacciò nondimeno a terra tutti i Torresini, & il muro, (la cinta del Borgo San Giuliano sull’odierna via Madonna della Scala) che guardava il Mare fin’alli cordoni, come s’avessero ricevuto tante cannonate: atterrà la facciata di S. Nicolò dirimpetto alla Città; ruinò la Chiesa delle Monache degli Angioli, con morte di tre di esse, che vi stavano, orando; demolì un gran pezzo del muro del Borgo verso il fiume (e passarono molti anni prima che la breccia fosse risarcita come si deve, causando fra l’altro non pochi problemi durante l’assedio di Rimini del 1469); demolì il muro di Francesco d’Uguccione de Martinelli, vicino la Paterina (la fossa Patara); fracassò, e la Casa de Mon. Bianchi, la Casa di Galvano Catani; un’altra di Rinalduccio de Fulere; una nella Parocchia di S. Maria al Mare; una in quella di Santa Croce, e fu un esterminio di camini, e di coppi, che convenne ad ognuno ricoprire le case. Levò poi al porto una barca, portandola sopa ‘l tetto d’un Magazino; nel qual punto trovandosi a pescare nel fiume Marecchia Rinalduccio de Fulcetti, e Morano de gli Strozzi da Fiorenza, veduta l’orribilità del tempo, procurarono di ricoverarsi nella casa di Bartol. della Brava; la quale poco appresso dal vento fu gettata loro sopra, con morte non solo di amendue: ma d’una donna, e d’un putto (…). Sradicò ultimamente infiniti arbori con total ruina de’ frutti, finché apportò alla Città & al Territorio danno di perpetua memoria”.
Nel 1513, addirittura, il Marecchia nel “fare il matto” cambia addirittura il suo corso: lasciato l’alveo che lo conduceva al Ponte di Tiberio, se ne apre uno nuovo che passa dall’altra parte del Borgo, sfruttando non solo i canali artificiali come il Dosso, ma seguendo evidentemente una sua certa tendenza, poiché disastri simili si erano verificati anche nel passato. Per esempio intorno al Mille, quando invece dell’ansa che volge verso Rimini il fiume tirò dritto per sfociare nell’attuale Viserba, da cui il toponimo di San Marino in Riparotta dove la sponda era stata travolta.
Nel 1513 per riportare il fiume al suo posto ci volle Galeotto di Pietro da Carpi, “uno de’ più eccellenti Ingegneri di que’ tempi”, come lo definisce Luigi Tonini, nonché spese ingentissime. E anche quelle non erano state le prime, se appena un anno prima un tal Mr. Joes. Aloisius Florentinus q. Francisci del Franchischis si era impegnato a ricondurre il (o la, come dicevano allora) Marecchia al suo alveo (“et ejus aquam reducere ad solitum ejus cursum sub dicto ponte ad dictum portum”) dietro la modica cifra di 500 ducati d’oro da 20 grossi l’uno: calcolando il solo valore dell’oro farebbero quasi 140mila euro.
Non le prime, ma niente affatto le ultime volte. Alluvioni disastrose provocate dalle piene del Marecchia si succedono a Rimini nei secoli a ritmo impressionante, fino a quando nel 1930 viene faticosamente portato a termine un vecchio progetto: il deviatore che allontana il fiume dalla città e la fa correre in quella direzione dove da tempo avrebbe preferito farlo. Può così nascere una quarantina d’anno dopo e più di fatto che di diritto, il Parco XXV Aprile, per tutti Parco Marecchia ma per le carte ufficiali ancora alveo del fiume e in quanto tale assoggettato alle norme idrogeologiche del caso: in realtà è infatti la “cassa di espansione” che deve mettere al riparo la città dai malumori dal fiume suo progenitore.
Condannando però l’antico porto canale alla fine per consunzione, accelerata dagli insensati interventi degli anni ’60 del Novecento, dal ponte della Resistenza ad altezza di moscone che impedisce l’ormeggio a qualsiasi imbarcazione alberata o appena rilevata, all’invaso con l’utopica barriera mobile, fino alle banchine in cemento regolarmente sommerse grazie ai marchiani errori di calcolo delle quote e alle plance metalliche per mai apparse centraline da darsena vip.