26 novembre 1917 – Il naufragio dello “Zeffiro” a Riccione
26 Novembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 26 novembre 1917 a Riccione c’è un tempo da lupi. La pioggia è ormai nevischio e la bora spazza il mare, che vicino alla costa si solleva in ondate impressionanti, trascinando verso la costa una nave che disperatamente cerca di riguadagnare il largo. E’ il cacciatorpediniere della Regia Marina Italiana “Zeffiro”.
Ne «Il “naufragio” dello ‘Zeffiro’ a Riccione – Fogliano, 26 novembre 1917 – Atto eroico di Gianbattista Joris» (Edizioni la Piazza – 2012), Fosco Rocchetta ha ricostruito un episodio rimasto nelle memoria dei Riccionesi, avvenuto durante uno dei periodi più drammatici per l’intero Paese.
Appena un mese prima, il 24 ottobre, l’esercito italiano aveva subito la disastrosa sconfitta di Caporetto: oltre 40 mila fra morti e feriti, 265 mila prigionieri, un’armata annientata, le altre in rovinosa ritirata. Sconfitta, ma non disfatta: proprio quel 26 novembre sul Piave si stava combattendo la battaglia decisiva, quella che avrebbe arrestato l’avanzata austriaca, giunta ormai a pochi chilometri da Venezia e sul punto di invadere tutta la Val Padana.
Intanto, però, mezzo milione di profughi friulani e veneti si erano dovuti riversare dietro le linee italiane, di fronte agli austro-ungarici inferociti dal desiderio di vendetta per il “tradimento” italiano e dalla voglia di rivalsa sulle sconfitte risorgimentali; ma anche dalla fame più nera, poiché l’impero stava bruciando tutte le sue ultime risorse e le truppe potevano nutrirsi solo di quanto saccheggiavano.
In Romagna erano arrivati 10 mila profughi in fuga da un’apocalisse di morte, stupri e devastazioni. Tantissimi furono ospitati in alberghi e villini requisiti sulla costa. E Riccione stava facendo la propria parte: quando il 3 settembre 1918 il patriarca di Venezia, monsignor Pietro Lafontaine, arrivò alla chiesa “Mater Admirabilis”, c’erano 4 mila fedeli veneti e friulani ad attendere la sua benedizione. Il Comune di Venezia, del resto, aveva dovuto trasferire i suoi uffici all’hotel Villa Iolanda Margherita di Rimini (poi Villa Tergeste), come è ricordato oggi da una lapide.
Quel 26 novembre, quando i Riccionesi sentirono il fischio di una nave in mezzo alla tempesta, in un primo tempo temettero un attacco austriaco. Non sarebbe stata la prima volta che la flotta imperial-regia si affacciava sulla costa, cannoneggiando la terra e silurando imbarcazioni. Solo pochi giorni prima ne erano state avvistate quattro.
Invece sulla nave in lotta coi marosi sventolava il tricolore, anche se dalla riva era impossibile distinguerlo. A bordo, il capitano Fossati era alle prese con la più difficile delle decisioni.
Quella nave era il cacciatorpediniere “Zeffiro”; dunque una piccola unità, ma non una qualsiasi. Allo scoppio della guerra il 24 maggio 1915, mentre la flotta austriaca attaccava immediatamente la costa adriatica italiana bombardando anche Rimini, era stata l’unica in grado di reagire coprendosi di gloria. Al comando del capitano di fregata Arturo Ciano (fratello di Costanzo e quindi zio di Galeazzo, che sarà il genero di Mussolini), riuscì a ottenere un buon successo, penetrando a Porto Buso nella laguna di Grado e bombardandone le caserme, costringendo gli occupanti ad arrendersi. Il 12 giugno dello stesso anno, al comando del futuro martire Nazario Sauro, era riuscito a violare il porto di Parenzo individuando una base di idrovolanti fino ad allora sconosciuta grazie alla cattura di alcuni prigionieri.
Due anni e mezzo dopo, quella notte lo “Zeffiro” era di scorta al piroscafo da trasporto “Solunto”, ma di fronte alla foce dei Fiumi Uniti, poco sotto Ravenna, era stato investito in pieno da un fortunale proveniente da nord. La destinazione doveva essere Venezia, ma rimontare quel mare era del tutto impossibile. Perso il contatto il piroscafo, lo “Zeffiro” venne trascinato nella direzione del tutto opposta, fino a trovarsi di fronte a Rimini. Il comandante non poteva far altro che tentare di raggiungere Ancona, unico porto nelle vicinanze dove una nave come la sua poteva trovare rifugio sicuro. Ma intanto la furia del mare aveva girato verso levante e lo scarroccio sospingeva il cacciatorpediniere sottocosta.
Tutto il personale di ponte era ormai semi-assiderato, la riva sempre più vicina, mentre il promontorio di Gabicce si stagliava ormai pericolosamente a chiudere la rotta della salvezza verso il Conero. Proprio allora, un’onda ancor più colossale delle altre aveva investito la nave provocando danni gravissimi quanto inaspettati: l’inchiesta successiva sottolineerà i materiali scadenti e inadeguati con cui la nave da guerra era stata costruita, appena 12 anni prima, non compensanti dalla robusta ristrutturazione cui la si era dovuto sottoporre nel 1912.
L’ondata si porta via mezza coperta e purtroppo anche un fuochista, Sante Ianni, che non sarà più ritrovato. Pur con le macchine al massimo, la nave danneggiata non ce la fa più a rimontare le onde. E ormai sta calando la notte. Al comandante non resta che tentare di arenarsi volontariamente.
Manovra molto difficile con lo “Zeffiro” già sbandato, fra il rischio di capovolgersi del tutto e quello di procurarsi una falla. Ma riesce perfettamente e la nave si adagia al largo della spiaggia di Fogliano, circa 500 metri a nord del Rio Melo.
«Aiuto, siamo italiani, affondiamo, salvateci!», gridano i marinai che cercano di raggiungere la riva al buio, ben consci del pericolo di essere scambiati per nemici.
Fra chi ode quelle grida c’è Giovanni Battista Joris, di origini istriane ma residente a Roma, 60 anni; un funzionario delle Ferrovie che dopo 20 ore di viaggio era appena sceso alla stazione di Riccione con la moglie e, come scrive Rocchetta, «s’incamminava verso la località Fogliano, dove possedeva una casetta ch’egli era appunto venuto per consegnare al Comitato dei Profughi».
Durante una sosta presso una tabaccheria vicina al suo villino, Joris sente le grida, va sulla spiaggia e in mezzo alla bufera scorge l’enorme sagoma in alla mercè delle onde. Pensa subito di andare a chiedere soccorso, ma prima perlustra la riva per vedere se c’è qualcuno.
E qualcuno sulla spiaggia c’è, un marinaio seminudo abbarbicato a un salvagente di legno, quasi incosciente per il freddo. Joris lo trascina fino alla casa più vicina; poi ne trova un altro che è riuscito a mettersi in salvo da solo e da lui apprende cosa è successo. Passa dalla moglie ad avvertirla che deve correre a dare l’allarme in paese.
A lei che lo supplica di non tornare in quell’inferno di vento e di neve, risponde: «Ci sono almeno 80 uomini laggiù, devo fare il mio dovere». E senza neppure cambiarsi gli abiti bagnati si incammina verso Riccione. La stazione dei Carabinieri non ha telefono. Bisogna ancora raggiungere la casermetta della Guardia di Finanza, da dove finalmente può partire l’sos telefonico. Poi Joris, sempre bagnato fradicio, torna indietro e guida Carabinieri e Finanzieri fin sul luogo dell’arenamento.
Tutto l’equipaggio dello “Zeffiro” fu tratto in salvo.
Al comandante Fossati venne riconosciuto di aver fatto la cosa giusta e nel modo migliore. Lo “Zeffiro” poté essere recuperato e tornò a navigare. La nave che aveva già partecipato a numerose azioni, ne compirà altre fino alla fine del conflitto per terminare il suo servizio nel 1924.
Il ferroviere sessantenne, stremato, tornò a casa solo a mezzanotte. Il giorno dopo non si sentiva molto bene.
Giovanni Battista Joris morì di polmonite il 7 dicembre 1917. Per lui Ministero della Marina avanzò un’altisonante richiesta di onorificenza regia.
«Non si conosce l’esito di questo accorato appello dai toni patriottici», scrive Rocchetta.
Ma almeno, «la Giunta Comunale di Rimini (cui ancora apparteneva la frazione di Riccione), l’11 gennaio 1918, riconosceva allo scomparso funzionario istriano una ricompensa al valor civile».
Non risulta che Giovanni Battista Joris sia ricordato nella toponomastica di Riccione con intitotalzioni di luoghi, né con qualche lapide o cippo.