27 marzo 1328 – Ludovico il Bavaro nomina i Montefeltro conti palatini
27 Marzo 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Con un diploma del 27 marzo 1328 l’imperatore Ludovico IV “il Bavaro“ nomina i cugini Nolfo e Galasso da Montefeltro Conti Palatini e li conferma nei loro possessi nella diocesi del Montelfetro.
In pratica, se la costa da Rimini ad Ascoli è quasi tutta dei guelfi Malatesta, nell’entroterra sono annidati i ghibellini Montefeltro a iniziare dall’atavico feudo comitale di Monte Copiolo. Ma questi ultimi riescono a ottenere dall’imperatore il titolo comitale ereditario di Urbino; e un bel giorno con Oddantonio diverranno addirittura Duchi, questa volta per nomina papale.
Di quella città i Montefeltro si erano già insignoriti nel 1213, quando Bonconte I la ricevette in feudo dall’imperatore Federico II di Svevia. Ma quell’investitura era sempre stata contestata, in primo luogo da molti degli stessi Urbinati che anelavano invece alla libertà comunale, ma soprattutto dai Papi. Facente parte dell’Esarcato di Ravenna e in particolare dell’antica Pentapoli “annonaria”, o “montana”, assieme a Gubbio, Cagli, Fossombrone e Jesi, i pontefici i pontefici la rivendicavano esattamente come l’altra Pentapoli, quella “marittima”, che comprendeva Rimini, Pesaro, Ancona, Senigallia e Fano. Secondo loro, decaduto il diritto degli imperatori di Costantinopoli sull’Esarcato, loro legittimo erede era l’Arcivescovo di Ravenna, soggetto però a Roma. Egli volente o nolente, poichè a lungo il presule ravennate tentò di rivaleggiare con quello romano, ritenendosi suo pari e portando comunque il il titolo di Esarca fino al 1157. Pretesa comunque contestata dagli imperatori germanici, che a loro volta si consideravano i veri successori in Occidente di quelli romani nelle terre d’Italia, in virtù del diritto di conquista avendole strappate ai Longobardi per mano del loro predecessore Carlo Magno. Conferire il titolo di Conte palatino con diritto ereditario ai fedeli Montefeltro era quindi anche un modo per riaffermare quelle pretese.
Invece i guelfi Malatesta, pur conquistando nel tempo territori sempre più vasti e certamente più ricchi di quelli feretrani, non arriveranno mai ad un titolo giuridico altrettanto solido. Resteranno sempre “vicari della Santa Sede”, una carica che non si trasmetteva automaticamente agli eredi e che a ogni successione doveva essere confermata dal Papa, passando spesso per lunghe controversie e mai senza una cospicua quantità di oro.
Sono giorni tumultuosi. Gli stessi narrati da Umberto Eco in “Il nome della Rosa”. L’anno prima Ludovico ha marciato su Roma. Papa Giovanni XXII si è sempre rifiutato di riconoscerlo imperatore e lui è sceso in Italia per prendersi la corona. A Monza, il 31 maggio 1327, si è già fatto posare sul capo la corona ferrea di re d’Italia da Guido Tarlati, signore e vescovo (scomunicato) di Arezzo, nonché fra i principali capi dei ghibellini e arcinemico dei confinanti Malatesta dei loro alleati: Brancaleoni di Castel Durante (oggi Urbania), Gabrielli di Gubbio (Cante Gabrielli era podestà di Firenze quando Dante fu condannato a morte in contumacia), Atti di Sassoferrato (gli antenati di Isotta), eccetera. E tutta la parte ghibellina esulta: forse è proprio Ludovico il “Veltro” dantesco, cui la divina Provvidenza ha affidato il compito di riportare al giusto equilibrio il potere del papa e quello dell’imperatore.
Dalla sua parte ci sono i migliori giuristi e teologi dell’epoca, come Marsilio da Padova, Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo e Guglielmo da Occam. Ma non basta. Per essere imperatori bisogna essere incoronati a Roma.
A Roma, ma non necessariamente dal Papa. Anche perché papi a Roma non ce ne sono più fin dal 1309, quando Clemente V ha spostato il seggio pontificio ad Avignone.
Secondo gli autorevoli pareri di quei dotti, a nominare legittimamente l’imperatore sono il Senato e il Popolo di Roma: S.P.Q.R. Non il suo vescovo, per quanto pontefice massimo: così sancisce il diritto romano. Per i giuristi medievali è quella l’unica “costituzione” possibile e il suo studio approfondito nelle libere università a iniziare da quella di Bologna, che va avanti almeno da due secoli, dà i suoi frutti politici.
Ludovico fa il suo ingresso nell’Urbe il 7 gennaio 1328. Si fa nominare Senatore e Capitano del Popolo, quindi il rappresentante di detto popolo, Giacomo “Sciarra” Colonna (quello che aveva schiaffeggiato Papa Bonifacio VIII nell’oltraggio di Anagni) lo incorona in San Pietro il 17 gennaio.
Si dà quindi a promulgare diplomi, come quello destinato ai signori di Urbino. Ha bisogno del massimo sostegno per quel che ha in mente di fare. Dagli alleati come i Montefeltro, i Tarlati, i Faggiolani di Casteldelci, fedeli e combattivi, ma signori di terre povere anche se strategiche a cavallo dell’Appennino, si aspetta soprattutto aiuti militari e li favorisce nelle loro ambizioni. Ma non si fida dei ghibellini più ricchi e potenti, come i Visconti o la città di Pisa. E così i primi sono esautorati e perfino incarcerati, mentre Pisa viene assediata senza riguardi e promessa a un altro intraprendente fedelissimo, il signore di Lucca Castruccio Castracani. Solo che per realizzare questo programma il denaro non basta mai: estorce 50 mila fiorini a Milano, addirittura 200 mila ai pisani. Nel frattempo, non una delle potenze guelfe, da Firenze ai Malatesta, dai Monaldeschi di Orvieto a Bologna, patisce dall’imperatore particolari fastidi. A questo punto gli entusiasmi dei ghibellini iniziano a raffreddarsi.
Il 18 aprile Ludovico dichiara deposto il “mistico anticristo Iacopo di Caorsa, che si diceva Giovanni XXII“, lo priva di ogni prerogativa ecclesiastica come “eretico notorio e manifesto”. Il 12 maggio fa acclamare dal popolo il frate minore Pietro da Corvara come Papa Niccolò V e da lui si fa incoronare di nuovo il 22 maggio.
Ma poi va tutto storto. E soprattutto per colpa sua. Continua a inimicarsi quelli della sua parte e a pretendere montagne d’oro da tutti. Alla fine deve abbandonare la Città Eterna fra i lazzi e le maledizioni dei romani. Per giunta muoiono sia Castruccio Castracani, sia l’altro grande ghibellino dell’epoca, Cangrande della Scala di Verona. Perfino Pisa si sottomette al Papa e addirittura fa prigioniero l’antipapa Nicolò. Ludovico assedia Grosseto: invano. Tenta allora di riprendersi Milano, ma deve scappare con ignominia di fronte ad Azzo Visconti. Perfino i ghibellinissimi marchesi d’Este si riavvicinano al papato, e così la stessa Milano. Nel febbraio del 1330 Lodovico ripassa il Brennero.
Nell’abbandonare l’Italia per non rimettervi più piede (continuando però a spedire diplomi a destra e manca, perfino agli ultra-guelfi Malatesta, beninteso mai gratis) si è lasciato dietro una solida certezza: no, il “Veltro” profetizzato da Dante Alighieri non era proprio lui.