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27 novembre 1446 – Gradara è salva dopo 42 giorni di epico assedio


27 Novembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Dopo una brillante campagna nella Marca e nel Montefeltro, Sigismondo Malatesta fa appena in tempo a godersi il suo trionfo a Rimini che il 21 agosto 1446 arriva la notizia: Feltreschi e Sforzeschi sono in grado di passare alla controffensiva. Francesco Sforza da Pesaro ha attaccato Pieve de la Trassola, sul Foglia. E Sigismondo deve accorrere per tamponare una scorreria del conte Dolce dell’Anguillara a Monteluro.

Sembrano scaramucce. Invece, come annota sbrigativamente l’urbinate Pierantonio Paltroni, segretario e primo biografo del Duca di Urbino, (“Commentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico Duca ďUrbino”), lo Sforza «se andò a campo a Gradara dove si stette quaranta die, che may fece altro che piovere et mettere neve continuamente con grandissima tempesta, intanto che may fo pusibili a dare battaglia».

Più o meno sulla stessa sintetica – e reticente – linea il racconto di un altro cortigiano di Federico da Montefeltro, il suo cancelliere Ser Guerriero da Gubbio: «El signore mes. Alixandro (Sforza) che havea abandonato el conte suo fratello (Francesco, futuro Duca di Milano), vedute le cose prospere, se retornò; a li preghi del quale prefati conti con lo exercito andarono a campo a Gradara, dove per uno tempo teribilissimo campegiaro er bambardaro; et lì fo conclusa la pacie et el castello remase al signore mes. Gismondo». 

Piove insomma così tanto che alla fine scoppia la pace? Si dice che la storia sia scritta dai vincitori. Ma per una volta, meno male che sia così: altrimenti dal racconto degli sconfitti non si capirebbe niente.

Cosa era successo dunque a Gradara? 

Era successo che il ramo dei Malatesta di Pesaro si ritrovava con un solo, ultimo virgulto: Galeazzo, detto per tanti buoni motivi “l’inetto“, senza eredi e ormai senza un quattrino. Ma pur di non cedere i domini ai detestati cugini di Rimini – il suo tentativo di spodestarli nel 1430 quando erano ancora ragazzi era fallito miseramente – li aveva venduti ad altri: parte all’arcinemico Montefeltro e parte allo Sforza. Era così immediatamente andata in frantumi l’alleanza fra Sforza e Malatesta, nonostante fosse stata sancita nel 1442 dal matrimonio di Sigismondo con Polissena, figlia naturale di Francesco. Il tutto architettato dall’abile Federico da Monfefetro, che intanto si era portato a casa la strategica Cagli, ma soprattutto si era guadagnato un alleato formidabile.

Francesco Sforza

I Malatesta però controllavano da un secolo e mezzo tutto il resto della costa fino a Senigallia e proprio per ricostituire la continuità territoriale concupivano tanto Pesaro. Lo Sforza, per rompere l’accerchiamento malatestiano e colpire al cuore la signoria rivale, doveva però riprendersi la strategica posizione che controllava e controlla la via Flaminia, la chiave per dilagare nel territorio riminese: Gradara. Superati i possedimenti malatestiani ci sarebbero stati poi quelli avìti degli Sforza, diretti discendenti dei conti Attendoli di Cotignola.

Sigismondo aveva tolto il castello e la rocca di Gradara ai cugini pesaresi nel 1442 e da qui poteva minacciare la valle del Foglia e la stessa Pesaro con ogni comodo. Quindi, come spiega Annibale degli Abati Olivieri Giordani (“Memorie di Gradara terra del contado di Pesaro”), «Alessandro, con l’aiuto del conte Francesco suo Fratello, tolto già avea di mano a Sigismondo le altre castella del Pesarese da lui occupate; restava solo Gradara, e quella fu nel 1446 da Francesco Sforza, e da lui assediata».

Alessandro Sforza, signore di Pesaro

Ma ecco come la storia fu raccontata dai vincitori, in questo caso un anonimo cronista riminese: «Adì XXVII detto novembre se partì al Conte Francesco Sforza da Campo da Gradara, che gli era stato quaranta dui dì; et se partì con poco honore; et foglie morto de multi homini d’arme da pe et da cavallo; et sempre dì e notte le bombarde traeva; et dagli el guasto: che non glie remaxe frasca sopra terra per disdegno che non l’aveva possuto avere; et degli molte battaglie».

La ricostruzione annuale dell’assedio di Gradara

Dunque un assedio durissimo, durato ben 42 giorni con l’artiglieria che sparava giorno e notte, i dintorni devastatati dalle razzie e ripetuti assalti al “guasto”, cioè alle brecce che si erano aperte nelle fortificazioni.

L’anonimo riminese non fa cenno alle intemperie che avrebbero ostacolato gli assedianti, forse perché non erano poi così insolite per quella stagione; della neve, poi, l’unico a lamentarsene è il cortigiano urbinate Paltroni; gli altri tacciono.

Al contrario, a Rimini c’è dovizia di particolari riguardo l’eroismo dei difensori, arrivando a contare quante palle di bombarda erano piovute sulle loro teste: «Et gli omine del detto Castello fur sempre soliciti cum li ripari, et portosse valentemente. Et foglie tratte al detto Castello CDXLVI pedre tra grande e piccole, tutte bombarde; et foglie morto da quegli dentro circa XV persone; et quigli dentro fe una bricula (“briccola”, specie di trabucco, che poteva scagliare grossi massi fino a 300 metri), che dì e notte briculava el campo, et amazzò de molti del ditto Conte». 

Trabucco (o briccola o biffa)

Nonostante le 466 “pedre” e i 15 morti, l’eroica resistenza di Gradara non cede e dà tempo a Sigismondo di raccogliere le forze e trovare a sua volta alleati. Gli Sforza devono andarsene scornati e sono costretti a firmare la pace. Ma nonostante l’epica impresa, nemmeno a Rimini regna la soddisfazione: Pesaro resta inaccessibile e continua a spezzare in due lo stato malatestiano, fornendo al Ducato di Urbino il prezioso sbocco a mare. Gradara resterà comunque saldamente in mano al signore di Rimini per quasi altri vent’anni, fino alla catastrofe del 1463.

(nell’immagine in apertura, Gradara ritratta nel XVIII secolo da Francesco Mingucci)

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