28 agosto 1309 – Rimini con i crociati contro Venezia nella guerra di Ferrara
28 Agosto 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 31 gennaio del 1308 era morto Azzo VIII Marchese d’ Este, Signore di Ferrara, di Rovigo e di parecchio altro su entrambe le rive del Po. Agli inizi del Trecento la famiglia d’Este in guerra con Bolognesi, Mantovani e Veronesi, era stata estromessa da Modena e Reggio e minacciata nel possesso della stessa Ferrara. Azzo nel 1305-1306 aveva chiesto l’aiuto di Venezia, ottenendone l’invio di rinforzi coi quali aveva saputo aver ragione dei suoi nemici. Aveva però dovuto ammettere in città l’insediamento di un visdomino veneziano. Essendo Azzo VIII gravemente malato, il Doge Pietro Gradenigo aveva inviato i patrizi Giovanni Foscarini, Giovanni Soranzo e Alvise Querini, ufficialmente come ambasciatori incaricati di offrire il massimo sostegno del Doge nella difficile circostanza, in realtà con il mandato di provvedere a tutto quanto necessario per prendere il possesso della città alla morte del Marchese.
Quale nuovo Signore di Ferrara era succeduto per testamento il nipote Folco. Il padre di Folco, Fresco d’Este, figlio illegittimo di Azzo, aveva immediatamente richiesto a Venezia l’invio di una guarnigione per garantire il trono del figlio dalle pretese degli zii Francesco e Aldobrandino, che erano invece figli legittimi di Azzo ma da lui esclusi dalla successione. Dal canto suo il conte Francesco d’Este aveva offerto a papa Clemente V il feudo di Ferrara in cambio di soccorso militare e del riconoscimento della signoria sulla città.
Mentre Folco e Fresco d’Este, divenuti sempre più invisi alla popolazione, riparavano al sicuro nella laguna di Venezia, a Ferrara giungevano le truppe pontificie, che occuparono la città in nome della Chiesa e vi insediarono come Marchese Francesco d’Este: il comandante veneziano, Niccolò Querini, non poté far altro che rinchiudersi nei castelli cittadini.
Il 3 settembre del 1308, fallite le trattative con gli ambasciatori ferraresi, i legati papali pretesero da Venezia la restituzione di Castel Tedaldo, la fortezza di Ferrara che controllava la navigazione sul Po, ancora occupata dai Veneziani. Il 7 ottobre il Maggior Consiglio della Repubblica di Venezia concesse al Doge e ai magistrati la facoltà di dichiarare guerra al papa. Il 16 ottobre, dal canto loro, i legati di Clemente V lanciarono la scomunica e l’interdetto sul Doge e quanti avessero sostenuto l’occupazione di Ferrara.
L’evento aprì una profonda spaccatura tra i due schieramenti che si contendevano allora il potere a Venezia: da una parte il Doge e il partito aristocratico che lo sosteneva con in testa la sua famiglia Gradenigo con i Giustianian e i Dandolo, dall’altra il partito “popolare”, guidato da Jacopo Querini, che si schierò su posizioni guelfe. In campo vi erano poi anche ragioni più prosaiche: i Badoer ed i Querini erano i maggiori proprietari fondiari veneziani nel territorio della città estense. Soprattutto i secondi, almeno nel ramo principale detto Querini “dalle Paposse”, in un’epoca in cui il patriziato veneziano era perlopiù dedito alla mercatura specialmente via mare, volgevano i propri interessi all’economia rurale, con vasti possessi appunto nel Polesine intorno a Papozze e a Tresigallo nell’oltre Po ferrarese, dove avevano beni pure i Badoer, i Moro, i Fontana e i Falier.
Il 2 novembre i Ferraresi chiesero tregua a Venezia, offrendole in cambio l’accettazione di un podestà, scelto dal Doge nella persona di Giovanni Soranzo, l’annullamento dell’esilio per Fresco e Folco d’Este, che rientrarono in breve a Ferrara, e la cessione perpetua di Castel Tedaldo. Poiché però l’accordo sembrava vacillare, nel marzo 1309 venne inviato da Venezia a Ferrara l’intimazione di attenersi ai trattati, pena la ripresa della guerra.
Frattanto il papa, irato, nonostante venissero inviati ad Avignone come ambasciatori Giovanni Zen, Delfin Dolfin e Pietro Querini per cercare un accomodamento, pubblicò il 27 marzo una bolla che estendeva l’interdetto e la scomunica all’intera città di Venezia, ordinandone parimenti l’evacuazione del clero. Il provvedimento, oltre a colpire il fronte interno, alimentando l’opposizione al partito aristocratico, rese improvvisamente la Repubblica e i suoi mercanti vulnerabili in tutti i territori latini, dove esplosero reazioni violente contro il commercio e i beni di Venezia.
Addirittura il cardinale Arnaud de Pellegrue annunciò la crociata contro Venezia, mentre da tutti i territori circostanti contingenti venivano inviati alla liberazione di Ferrara. Secondo il Clementini, fra coloro che presero la Croce contro i Veneziani vi furono i Malatesti di Rimini ed i Polentani di Ravenna. All’appello risposero anche la ultra guelfa Bologna e naturalmente Padova, nemica giurata della Serenissima.
Il 9 aprile il governo veneziano ordinò al nuovo podestà di Ferrara, Vitale Michiel, di ritirarsi a Castel Tedaldo in attesa dell’arrivo di rinforzi, che giunsero velocemente al comando di Andrea Querini. Lo scoppio della peste tra le truppe, però, decimò presto il contingente provocando la morte dello stesso Michiel: ragione per cui venne inviato Marco Querini con un nuovo rinforzo e una flotta al comando di Giovanni Soranzo per riprendere il controllo del Po. Il diffondersi del morbo, però, spezzò la forza anche di questi nuovi reparti, tanto che, il 28 agosto 1309 i Ferraresi dilagarono in Castel Tedaldo, massacrandone i difensori, mentre altri distruggevano la flotta fluviale. Tra i pochi superstiti vi era Marco Querini, che riuscì a riparare a Venezia, dove gli vennero però addossate le responsabilità della sconfitta.
Il 24 settembre i guelfi di Romagna, capeggiati dai Da Polenta signori di Ravenna con i Malatesti e i Bolognesi a dar manforte, attaccarono e distrussero il Castello di Mercabò (o Marcabò o Marcamò). Era stato costruito dai veneziani tra il 1258 e il 1260 per difendere le loro rotte commerciali sul Po di Primaro, che allora sfociava proprio presso Ravenna. Nell’impresa si distinse il giovanissimo Guido Novello, futuro protettore ed ospite di Dante Alighieri, il quale citerà il castello nell’Inferno (XXVIII, 75) in una perifrasi che indica la Pianura Padana:
«rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina»
La sconfitta aprì in Venezia una profonda ferita che sfociò nella fallita congiura del Tiepolo del 1310, durante la quale Marco Querini, uno dei promotori del colpo di stato assieme a Bajamonte Tiepolo e Badoero Badoer, fu ucciso assieme al figlio Benedetto dai partigiani del Doge Pietro Gradenigo.
Non era il primo e non sarà l’ultimo scontro di Venezia con chi le precludeva il controllo del delta padano e della costa romagnola, crocevia di traffici con quello del preziosissmo sale innanzi a tutti. La Repubblica di San Marco se la dovette vedere per almeno altri due secoli con Ravenna, Bologna e Ferrara, ma principalmente con i papi, che di nuovo ricorsero più volte all’arma della “guerra santa”.
Ferrara visse da parte sua ancora anni convulsi: il 26 luglio 1310 la città tornò brevemente nelle mani dei ghibellini della famiglia Torelli, guidati da Salinguerra III, presto ricacciati dai guelfi con l’aiuto armato dei catalani di Roberto d’Angiò, salvo infine tornare nel luglio 1317 sotto la signoria estense con Obizzo III d’Este.
Intanto però “Ferrara tornò in podestà della Chiesa; dalla quale fu poi ceduta in Vicariato, non già agli Estensi, ma a Roberto Re di Napoli succeduto a Carlo II, suo padre morto nell’anno medesimo, con intendimento che questi avesse a rimettere nella soggezione di essa tutta Romagna”, come annota Luigi Tonini, che da buon neo-guelfo con quel “tornò” dà per scontati i diritti del papa sul ferrarese, il che nel Trecento era invece quanto meno dubbio.
Prosegue lo storico riminese: “Re Roberto adunque, ottenuto questo Vicariato, vi mandò in vece sua Nicolò Caracciolo Napoletano, il quale nell’Ottobre del 1310 si fermò in Cesena, ove tentò, come ebbe fatto in altre terre, di metter pace tra le fazioni, e restituire la patria ai fuorusciti. L’Annalista di Cesena dice che in Rimini per opera di costui furono rimessi i Parcitadi. E certo lo potè fare senza danno dei guelfi, perchè troppo decaduti dall’antico loro stato non davan timore di riabilitare il partito ghibellino a potenza”.
E gli antichi rivali ghibellini dei Malatesti, i cui superstiti dopo la cacciata del 1295 si erano rifugiati proprio a Venezia, dovevano davvero essere considerati ormai innocui a differenza di altri, dato che “appresso il Caracciolo poi, secondo Gio. Villani L. VIII, Cap. XVIII, Re Roberto nel Luglio 1311 mandò suo Visconte in Romagna Ghiberto da Santiglia con 200 Cavalli e 500 fanti, il quale mise in carcere tutti quanti i Caporali ghibellini di Forlì, Faenza, Imola, e delle altre Terre di Romagna”.
(nell’immagine in apertura: Dipinto del XIV secolo di una galea sottile, proveniente da un’icona al Museo bizantino e cristiano di Atene)