“Gli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre giorni di marzo (o, più recentemente, solo l’ultimo giorno di febbraio o il primo di marzo) sul far della sera, i contadini facevano (e in qualche luogo fanno ancora) «lume a marzo», accendendo fuochi nei campi”: così riportano Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi (“Calendario e tradizioni in Romagna” il Ponte Vecchio, Cesena 1989-2016).
E il riminese Gianni Quondamatteo (“E’ luneri rumagnolo”, Galeati, Imola 1980) precisa: “Subito dopo il tramonto si accendeva in ogni campo un gran falò di gramigne e sterpi, e intorno a questa fugaréna, certo di remota origine, i fanciulli facevano il girotondo, ripetnedo un’antica invocazione”. Eccola: “Lȏna, lȏna a mêrz/ che una spiga feza un bêrch/ un bêrch una barchetta/ e una ghemba d’uva seca”.
Di questa formula esistono molte versioni in tutta la Romagna. Sempre nel riminese, Nanni nel 1924 raccolse questa: “Lom a mêrz, lom a mêrz/ una spiga faza un bêrch/ un bêrch, un barcarol/ una spiga un quartarol/ un bêrch, una barchetta/ tri quatrein una malètta”.
Evidente l’intento propiziatorio rivolto alla resa del grano. La bica è il mucchio dei covoni di quello appena mietuto; il barco è quello che impropriamente oggi chiamiamo pagliaio; quartarolo o quartarola sono, secondo le località, la quarta o l’ottava parte dello staio, la misura per i cereali equivalente dalle nostre parti a circa 57,5 litri; mentre malètta significa sacchetto (da cui il corrispondente in contesto anatomico maschile).
Sempre Baldini e Bellosi riferiscono che “a Galeata, invece, l’ultima sera di febbraio, si incendiavano «dei manipoli di paglia legati all’estremità di un palo» che venivano agitati «festosamente per ogni dove» (Mambrini 1935)”.
E che “a Montescudo, quando il fuoco del falò si era spento, i ragazzi tracciavano sul posto una grande croce per evitare che il diavolo andasse a ballare sulle ceneri, e mentre la tracciavano dicevano:
Croscia ad legn/ croscia ad fer/ la Madona sempre e e’ diavle quael (Croce di legno/ croce di ferro/ la Madonna sempre e il diavolo mai (Nanni 1937)
L’operazione quindi aveva la funzione di salvaguardare il potere propiziatorio del falò da interventi malefici”.
Nello spiegarla, i due autori citano Sir James Frazer, uno dei padri dell’antropologia: “Il fuoco è considerato promotore della crescita dei raccolti, e del benessere dell’uomo e delle bestie, o positivamente stimolandoli, o negativamente stornando i pericoli o le calamità che lo minacciano da cause come tuoni o lampi, incendi, golpe, muffa, insetti, sterilità, malattia, e non minore delle altre, stregoneria”.
Ma perché praticare questi riti per propiziare il grano proprio ora, in un momento distante da quelli cruciali come l’aratura e la semina autunnali e del raccolto estivo? Perchè l’inizio del mese di marzo “segna la fine dell’inverno e l’arrivo della buona stagione, la cui luce e calore i falò intendono richiamare, secondo i principi della magia imitativa”. Quindi la medesima funzione di altri roghi o fogheracce, come quella inestirpabile “di San Giuseppe”, l’altra di poco successiva per la festa dell’Annunciazione, oppure la Segavecchia di metà quaresima, solo per stare in Romagna. Ma falò primaverili si accendono o si accendevano in tutta Europa e oltre. C’erano però anche fuochi di inizio anno, come in tante parti d’Italia si accendono ancora prima, per Sant’Antonio Abate, Sent’Antoni dla berba, o dal bes-ci, il 17 gennaio. Se non che il capodanno nell’antichità cadeva spesso a marzo, come fra i primissimi Romani.
“I falò di marzo, in origine, – ipotizzano Baldini e Bellosi – sancivano probabilmente anche la fine dell’anno vecchio e l’avvento di quello nuovo e bruciavano così il tempo passato come purificazione in vista del tempo futuro: infatti nell’antica Roma (fino al 153 a.C.) e presso altre popolazioni antiche l’anno cominciava il 1° marzo”.
Una traccia di quel capodanno marzolino potrebbe essere rimasta anche in occasione già ricordata festa dell’Annunciazione di Maria del 25 marzo. Per la Festa dla Madona infatti non si facevano solo le fogheracce, ma scadevano i contratti dei garzoni, con relativo saldo del salario dovuto ed eventuale rinnovo. Mentre i nuovi fanciulli si andavano ad affittare nelle due grandi fiere romagnole tenute proprio a questo scopo, quella di Conselice e quella di Rimini presso la chiesa della Colonnella.