30 agosto 1469 – Rimini tre mesi sotto assedio del papa ma Roberto Malatesta stravince
30 Agosto 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 30 agosto 1469 si scatena la battaglia decisiva fra Roberto Malatesta e i suoi alleati, in primis il Duca d’Urbino Federico da Montefeltro, contro l’esercito della Chiesa comandato da Alessandro Sforza signore di Pesaro e il Capitano Generale Pontificio Napoleone Orsini, conte di Albe e di Tagliacozzo nonché signore di Bracciano.
La Chiesa assedia Rimini dal 7 giugno: quasi tre mesi di violenti combattimenti che hanno provocato alla città danni gravissimi. Come annota un cronista bolognese, “nel tempo che ‘l campo stecte a Rimine bombardono la città et si gli treno 1642 ballotte (palle di artiglieria pesante), le quale uciseno asaissimi homeni cum bombarde, balestre, spingarde, facendo molta ucisione de loro per modo che quelli fanti erano impaurati, et non ardivano de comparire fuora de repari”.
C’è chi ha ipotizzato che proprio allora le svettanti torri di Castel Sismondo siano state scapitozzate, o dalle cannonate o dagli stessi difensori: in poco più di vent’anni le artiglierie avevano fatto passi da gigante e la fortezza di Sigismondo, inaugurata nel 1446, nonostante le formidabili “scarpe” alla base delle mura, con le sue altezze ancora “medievali” era già inadatta a reggere le nuove potenze di fuoco.
Ma come si era arrivati a questa situazione? Alla morte di Sigismondo, il 7 ottobre 1468, secondo il suo testamento la signoria sarebbe dovuta passare ai figli Sallustio e Valerio Galeotto, ancora sotto la tutela della vedova Isotta degli Atti. Ma non tutti sono d’accordo.
Non lo è certamente il figlio maggiore Roberto, avuto dall’amante fanese Vannetta de’ Toschi. Illegittimo, certo, ma a quei tempi la cosa si poteva sistemare: lo stesso Sigismondo e i suoi fratelli erano nati fuori dal matrimonio. E lo stesso Sallustio era figlio di Vannetta, come illegittimo era Valerio. Quest’ultimo era stato legittimato da papa Niccolò V nel 1453. Nel caso di Roberto questo non succede. Nonostante sia cresciuto accanto al padre, combattendo al suo fianco e dando prove sia di valore militare che di acutezza politica, a lui non vanno che le briciole. A 31 anni (o 26, o 29, secondo le varie fonti) è un condottiero stimato ma senza domini importanti e non intende certo restarsene in disparte: il padre era già Signore di Rimini all’età di 15 anni!
Un altro che ha progetti diversi per Rimini è papa Paolo II, il veneziano Pietro Barbo. I Malatesta non erano mai stati veri e propri feudatari, né della Chiesa né tanto meno dell’Impero. Possedevano, è vero, il dominio di Rimini e di molto altro almeno dal 1295. Ma si trattava di uno stato di fatto senza solide basi giuridiche: erano sempre stati infatti “Vicari”, una carica a tempo determinato, diremmo noi, anche se poi era stata sempre rinnovata e addirittura trasmessa di erede in erede. Passata la metà del Quattrocento, a Roma ne hanno però abbastanza di questi Vicari che di fatto regnano come sovrani indipendenti. Molto meglio nominare direttamente dei Governatori, in carica un anno o poco più, tenendo saldamente il controllo dei propri possedimenti. E secondo la Santa Sede Rimini le appartiene almeno dal 754, mentre certamente nel 1278 l’imperatore Rodolfo I d’Asburgo ha rinunciato a ogni diritto sulla Romagna. Non basta: il vescovo riminese obbedisce da sempre solo al Papa e non è mai stato subordinato nemmeno al vicino e potentissimo arcivescovo di Ravenna, neppure ai tempi dell’Esarcato “bizantino”.
L’obiettivo sarà raggiunto da Papa Giulio II nel 1509, ma intanto il desiderio pontificio si è già avverato a Cesena, che alla morte del fratello di Sigismondo Domenico Malatesta Novello, il 20 novembre 1465, è tornata sotto il governo diretto della Chiesa. La stessa sorte era già stata scelta volontariamente da Fano nel 1463. Poi toccherà anche ai feudatari veri e propri come i Duchi di Urbino; prima sostituendo i signori ereditari con propri parenti – dopo l’ultimo Montefeltro nel 1508 subentrano i Della Rovere (con Francesco Maria nipote di papa Giulio II), poi nel 1630 anche per quel Ducato si scrive la parola fine.
Alla morte di Sigismondo il dominio de facto dei Malatesta era ridotto quasi alla sola Rimini, dopo essere giunto, secondo i periodi, fino ad Ascoli, oltre Sansepolcro nella valle del Tevere, Cesena, Cervia, Sarsina e Meldola in Romagna e perfino Bergamo e Brescia (giusto il tempo perché vi nascesse Sigismondo). Papa Paolo ritiene che i tempi siano maturi per sbarazzarsi di questa ingombrante ma ormai indebolita stirpe. E per raggiungere i suoi scopi pensa di servirsi dei dissidi che la scuotono dall’interno. C’è dunque questo figlio illegittimo e scontento, buon soldato che ha sempre combattuto sotto le insegne della Chiesa. Secondo una fonte, è stato proprio il cardinale Pietro Barbo a battezzare Roberto. Si è comunque ben comportato nella faccenda di Cesena, accontentandosi in cambio di signorie minori: Meldola, Sarsina, Dogara, Turcino, Montevecchio, le Caminate, Culianello, Ranchio, Gaibana, Turrita, Perticara, Saligno, Casalbono e Polenta. Il pontefice gli propone dunque, dietro un lucrosissimo compenso in denaro sonante, di strappare la città a quella vedova e i suoi ragazzini per riportarla sotto le cure materne di Santa Romana Chiesa. E Roberto accetta.
Travestito da contadino, il 20 ottobre 1468 Roberto penetra dunque in Castel Sismondo e in un battibaleno il golpe è cosa fatta. Isotta è rispettata ma esautorata, mentre i fratelli faranno entrambi, a tempo debito, delle brutte fini. Ma passa il tempo e la seconda parte del piano romano non si concretizza. Mentre il furore del papa cresce di giorno in giorno, Roberto si tiene Rimini tutta per se e la governa da signore assoluto.
Un affronto che può essere lavato in un solo modo: la guerra. Ne sono incaricati appunto il comandate supremo pontificio, l’Orsini, e il signore limitrofo che ha più interesse a farla finita con i Malatesta, Alessandro Sforza signore di Pesaro, nonché fratello di Francesco, l’ormai defunto Duca di Milano.
Seguiamo di qui in poi l’accurata ricostruzione dell’assedio che si deve a Paolo Semprini. Il piano di battaglia viene steso da Zane, un lontano parente del papa che è Tesoriere della Chiesa di Cesena. Non mancano le “quinte colonne”, cioè dei nobili cacciati da Rimini che forniscono preziose informazioni: il conte di Sorrivoli Carlo Roverella, messer Raniero dottore e cavaliere, Carletto Agolanti e Don Giuliano Zoppo figlio di tal maestro Antonio. Scartata l’ipotesi di assalire frontalmente Rimini dal Borgo San Bartolo (oggi San Giovanni), si mette a punto un disegno machiavellico, che comprende false notizie su una spedizione dello Sforza contro Città di Castello, finti pellegrini che devono introdursi nel Borgo San Giuliano e un colpo di mano che approfitterà di un punto debole della mura. Accanto alla porta del Borgo che si apre sulla via Emilia, Don Giuliano Zoppo possiede un terreno e sa che la muraglia e la stessa Porta San Giuliano dopo la fiumana del 1440 sono state riparate alla meglio. Praticando una breccia nel muro lì molto sottile, le avanguardie avrebbero aperto poi la porta minore del Borgo che dava sul porto, la Gramignola, a chi stava fuori. Nascosti nell’Orto dei Cervi (il giardino di caccia dei Malatesta all’interno del Borgo, già allora coltivato però a grano) avrebbero atteso che i falsi pellegrini entrassero in città. Poi tutti assieme avrebbero aperto al grosso dell’esercito, che giungeva “solo di passaggio” per la fasulla spedizione tifernate, l’altra Porta San Giuliano, quella che dava accesso alla città vera e propria passando dal torrione all’estremità del Ponte di Tiberio, che si era chiamata anche porta San Piero o San Pietro e Paolo (dal nome originario dell’abbazia di San Giuliano) o anche Gallica.
Tutti si svolge come previsto nella notte fra l’8 e il 9 giugno. Scrive Semprini: “Il tesoriere Zane, alla testa di un migliaio di uomini guidati da Antonello da Forlì e da Gian Francesco di Bagno, passando esattamente come da copione per la breccia praticata nel muro nuovo dalla fiumana del 1440 penetrò nel cosiddetto “Orto dei Malatesta”, detto anche “Orto de’ Cervi” o “dei Daini”, e come previsto si nascose coi suoi in mezzo al grano alto aspettando l’alba per congiungersi alle truppe pontificie non appena queste fossero riuscite a farsi aprire con l’inganno la porta di Bologna. Dal canto suo la sera prima Roverella, coi suoi uomini, non aveva trovato nessuna difficoltà ad entrare in città dal varco aperto in corrispondenza della porta di S.Giuliano”.
Ma quando Alessandro Sforza appare con i suoi armati, nessun riminese abbocca alla favola dell’esercito che chiede solo un transito, che peraltro viene negato o forse neppure viene richiesto, visto che la sorpresa è sfumata. Gli spalti della città appaiono infatti irti di gente armata fino ai denti.
A questo punto per i pontifici le cose iniziano ad andare storte. Lo Sforza sbaglia strada e si impantana ai Padulli. Si unisce in ritardo ai commilitoni già entrati nel Borgo e solo allora tutti insieme possono dare l’assalto al torrione di San Giuliano. Ma bisogna passare sullo stretto Ponte, in pochi alla volta e allo scoperto. I tentativi di sfondare vanno avanti per tutta la giornata del 9 giugno, ma gli archibugieri appostati sul torrione fanno strage degli assalitori.
All’alba del 10 giugno si apre però un’opportunità. Il livello del Marecchia si è fatto così basso che diventa facile da guadare. Gli sforzeschi pesaresi lo fanno e irrompono nel Borgo Marina presso la chiesa di San Nicolò, trascinando anche l’artiglieria e sciamando fino al muro della Torraccia, pressapoco dove oggi c’è piazza Clementini. Era questo, secondo alcuni, una vestigia del faro del porto romano, secondo altri una fortificazione malatestiana. In ogni caso la Torraccia stava sulla riva del mare e il muro che da lì conduceva al sito dell’Anfiteatro sbarrava la via per giungere all’Ausa, la cui foce fungeva anch’essa da approdo.
Da questa area, che oggi corrisponde circa alle vie Roma e dei Mille, gli ecclesiastici bombardano per tutta la mattinata Porta Galliana. Che però resiste e risponde al fuoco. Non solo. Nel pomeriggio, appena gli assalitori si concedono una pausa, Roberto esce in sortita con la sua cavalleria e li spazza via da Borgo Marina. E’ il fuggi fuggi. E siccome le acque del Marecchia nel frattempo sono risalite e tornare nel Borgo San Giuliano non si può, agli assedianti non resta che accalcarsi verso il muro della Torraccia. Qui chi è a cavallo riesce ad aggirarla e a guadare il “porto” dell’Ausa, mentre i fanti durante la notte devono sfondare il muro con una breccia per passare oltre, sempre bersagliati dai riminesi con balestre, archibugi e “cerbottane”, come allora venivano detti dei cannoncini capaci di sparare palle di piombo da un chilogrammo e più. Tutta l’operazione si svolge nel caos assoluto e costa una cinquantina di morti e feriti “senza numero”. Chi salva la pelle si sfoga invadendo e dando alle fiamme Borgo San Bartolo, detto anche di San Ginesio (oggi San Giovanni o XX Settembre, perché a Rimini i luoghi hanno sempre molti nomi).
Ma è solo ora che inizia l’assedio vero e proprio. A dar man forte ai pesaresi dello Sforza giunge infatti il grosso dei pontifici di Napoleone Orsini, con reparti forniti anche da Giulio Cesare da Varano, signore di Camerino, e altri chiamati da Antonello da Forlì e Giovan Francesco di Bagno. Sono 1.500, forse 2 mila uomini “molto bene in ordine”, cioè armati ed equipaggiati di tutto punto. Le bombarde sparano per tre mesi di fila le “ballotte” scrupolosamente annotate dalle cronache (ma con numeri discordanti: invece delle 1642 contate dai bolognesi, altri scrivono “ben 1121 botte grosse senza contare le piccole”). Una cannonata centra e distrugge perfino una campana di S. Maria dei Servi. Mentre per Roberto le cose sembrano andare di male in peggio. Venezia, dopo averlo invano esortato ad arrendersi, lo abbandona e si porta via la guarnigione e i navigli che teneva a Rimini.
Ma verso la metà di agosto il vento cambia. O meglio, maturano i frutti di passi politici compiuti da Roberto e Sallustio (o piuttosto da sua madre Isotta) fin dal 4 febbraio, quando Rimini aveva aderito alla lega promossa dal re di Napoli Ferdinando I d’Aragona contro papa Paolo che si è messo in testa di scacciarlo dalla sua Sicilia. E con l’aragonese ci sono niente di meno che Firenze e Milano oltre a vari signorotti romagnoli.
Non solo; fa parte della lega anche l’antico arcinemico dei Malatesta, Federico da Montefeltro. Da gran politico che è, ha inteso perfettamente il disegno dei papi, dei quali peraltro è sempre stato suddito a tal punto fedele da tramare in segreto per loro contro gli amici Medici di Firenze nella congiura de’ Pazzi (lo si scoprirà solo in questo secolo grazie alla decifrazione di una lettera in codice del Duca di Urbino). Rimini in mano ai Malatesta ormai indeboliti gli conviene assai più che governata direttamente dai papi, che prima o poi avrebbero allungato le mani sul suo stesso ducato. Quanto a Pesaro, molto meglio che diventi l’agognato sbocco al mare della sua Urbino, invece che lasciarlo a quello Sforza, alleato prezioso finché c’era da fronteggiare Sigismondo, ma ora divenuto molesto.
Re Ferdinando non può arrivare di persona a sostenere Roberto Malatesta, ma invia il figlio Giovanni Duca di Calabria con un grosso esercito comandato dal generale spagnolo Don Alonzo e un bel po’ d’oro. Il 19 di agosto è Federico a intimare a Sforza e Orsini di togliere le tende. Siccome non ne vogliono sapere, si scatena la battaglia nel Borgo San Giuliano dove sono ancora asserragliati, finchè non ne vengono buttati fuori.
E’ allora che da parte dei pontifici “fo usato grande disonestà che nella partita loro abrusarono dicto borgho e più ferono gittare gran parte delle mura”. Nel borgo San Giuliano, “date alle fiamme e dirute in gran parte le mura, ovunque regnava la desolazione”.
Le genti ecclesiastiche alleate con le truppe regolari pontificie sono comunque costrette a ritirarsi dapprima a Virgilliano (Vergiano) e poi nei pressi di San Lorenzo a Monte. Ma vengono assalite e scacciate anche da lì: Antonello da Forlì coi suoi trova scampo nella rocca di Santarcangelo, sapendo che Federico ha vietato a Roberto di toccare quella fortezza.
Solo quella: Roberto deve cogliere l’attimo e arraffa tutto quelo che può dell’antico dominio malatestiano: Monte Scudolo, Gimmano, Montecolombo, Albareto, Salodeccio, San Climento, San Gianni in Marignano, Giello, Cerreto, Cieresolo e Mulatiano; poi è la volta di Corigliano (Coriano), Monte Gridolfo e perfino Pian di Meleto.
Secondo un’altra versione dei fatti, dopo il ritiro da S.Giuliano il grosso delle milizie pontificie si sarebbe ritirato in un luogo detto “la Cella dei Ciociari”, e da qui, ripiegando ulteriormente, verso il colle di Cerasolo.
Dal colle di Borgazzano Napoleone Orsini, Zane, Alessandro Sforza ed altri capitani fra cui Pino Ordelaffi da Forlì ritengono di essere in vantaggio data la loro posizione sopraelevata. E attaccano loro.
Il 30 agosto 1469 ha inizio lo scontro. Ma quando il bastione eretto da Federico pare stia per cedere sotto l’impeto degli ecclesiastici, ecco arrivare Roberto con i suoi cavalieri, quindi contrattaccano anche Federico e il duca di Calabria. Verso sera si combatte ancora e i comandanti pontifici, per non farsi cogliere dalla notte, ritirarano le cerbottane ambulanti (montate su ruote) e cercano di tornare sulle posizioni di partenza.
Roberto non aspettava altro e si lancia all’attacco trasformando la ritirata degli avversari in una fuga precipitosa. Si dice che Federico da Montefeltro in quella occasione abbia elogiato Roberto chiamandolo “degno figlio di Sigismondo”. L’inseguimento prosegue da Cerasolo a Vergiano e alla fine Zane si deve rifugiare nella sua Cesena. Bilancio: milleseicento cavalli presi da Roberto e molti nobili prigionieri, con conseguenti grandi riscatti da pagare.
Roberto Malatesta è ora “il magnifico”. Gaspare Broglio, che di questi fatti fu testimone e cronista, auspicava che fossero ricordati con una festa annuale. Rimini non aveva mai subito un assedio tanto duro dai tempi della guerra gotica, 900 anni prima! E non ne dovette patire per altri 500 anni, fino alla seconda guerra mondiale. Ma in questo frangente dal pericolo estremo si era passati alla vittoria più clamorosa. Forse, come suggerisce Paolo Semprini, varrebbe la pena che fra tante celebrazioni anche quell’evento oggi fosse in qualche modo ricordato.
(Nell’immagine in apertura, monumento funerario di Roberto Malatesta nelle Grotte Vaticane, attribuito a Eusebio da Caravaggio, 1483-84)