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Il 4 novembre che ci unifica davvero


4 Novembre 2018 / Lia Celi

Mi sembrano così lontani gli anni della mia infanzia nel Nord-est, dove la Grande Guerra non era solo storia, ma esperienza dei nonni.

Le suore della mia scuola elementare privata erano triestine e le canzoni patriottiche facevano parte del nostro repertorio scolastico, insieme a hit religiosi anni Settanta come Esci dalla tua terra e va e Resta con noi (cantavamo in coro tutti i giorni, all’inizio e alla fine delle lezioni: a pensarci oggi pare stranissimo).

Lassù le memorie del ’15-’18 erano una cosa seria, mica vuota retorica: negli anni Settanta c’era ancora tanta gente che poteva ricordare e raccontare, nonni per i quali «la testa pien de peoci e niente scarpe per caminar» non erano solo versi di Tapùm, ma esperienza dolorosamente vissuta, e la campana di San Giusto aveva un valore sacro, non per trombonaggine acquisita, ma perché si sapeva davvero quanto era costato il festoso scampanio del 4 novembre 1918.

Lo raccontavano altre canzoni «disfattiste» e censurate come Gorizia tu sei maledetta, con quell’accusa ai «vigliacchi» che se ne stanno al caldo, immemori della «carne umana» macellata nel fango e nella neve. «La meglio gioventù va sottoterra», diceva l’anonimo autore del Ponte di Bassano, e quella che non moriva di fuoco o di malattia restava mutilata, sfigurata nel viso e spezzata nell’anima.

Fior di scrittori e di storici, di tutte le nazioni belligeranti, ci hanno raccontato gli orrori di quella guerra, unanimemente riconosciuta come la più terribile e crudele della storia umana, su tutti i fronti su cui è stata combattuta, dalla Francia alla Russia alla Turchia, ancora più spaventosa perché ha creato le condizioni per la nascita di ben tre totalitarismi.

A cent’anni di distanza, siamo sicuri che il Quattro novembre, festa delle Forze armate e giusta celebrazione dell’armistizio, sia «molto più unificante di altre feste nazionali», come sostiene Giorgia Meloni – alludendo ovviamente agli indigesti (per lei e per quelli come lei) 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno?

Voglio dire, unificante per chi? Non per la maggioranza degli italiani, che non conosce la storia e se ne disinteressa beatamente. A meno di non accettare il taglio storiografico meloniano, che vede nel «non passa lo straniero» della Grande Guerra un’anticipazione dell’odierno sovranismo xenofobo: i barconi dei migranti disarmati e affamati sarebbero il moderno equivalente delle irrefrenabili truppe tedesche da montagna che sfondarono a Caporetto sotto la guida di Rommel (un tedesco! Come la Merkel! Tutto si tiene, no?).

Unificante non è il 4 novembre in sé, ma la riflessione che scaturisce spontanea in chi, studiando la Grande Guerra, capisce che non è impossibile che un continente progredito e prospero, dopo tanti anni di pace, venga colto da una follia suicida e fratricida e si getti in un inferno di sangue. E’ già successo un secolo fa, in Europa, e potrebbe succedere di nuovo. Speriamo che la «meglio gioventù» di oggi se ne renda conto in tempo.

Lia Celi www.liaceli.it