6 settembre 1503 – Pandolfaccio Malatesta si riprende Rimini
6 Settembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Nel 1503, da tre anni Rimini è governata da Cesare Borgia. In teoria è sempre nello Stato della Chiesa; in pratica il Valentino, con il titolo di Duca di Romagna, si sta creando un territorio tutto suo, che dovrà sopravvivere anche dopo la dipartita di suo padre, Papa Alessandro VI.
A Rimini il Borgia si è tirato dalla sua, fornendoli di lauti stipendi, nobili come Galeotto Gualdi, Lazzarino Lazzarini, Michele Melzi e Sebastiano Bonadies. Ma il partito malatestiano non è affatto morto, nonostante le violenze e le stravaganze dell’ultimo signore espresso dalla famiglia, Pandolfo IV detto Pandolfaccio, che dopo aver venduto Rimini e Sarsina al Valentino per 5.500 ducati continua a tramare dall’esilio a Bologna presso il suocero Giovanni Bentivoglio. I “Pandolfeschi” raggruppano le famiglie nobili ancora fedeli agli antichi signori; in prima fila ci sono i Marcheselli – furono fra i proprietari del palazzo poi divenuto Lettimi – banditi dalla città pena la morte e privati di beni e privilegi.
Il governo del Duca Valentino per molti versi è apprezzato. Piace ai Riminesi la concordia fra le fazioni raggiunta sia con le buone (amnistie e restituzioni di beni e cariche ai fuorusciti) che con le cattive. Bene anche l’istituzione del primo Monte di Pietà (sul modello di Roma) e il divieto per tutti di portare armi, nobili compresi; e pazienza che ad applicarlo fossero due stranieri, il governatore spagnolo don Bernardo Corbera (cui sarebbero succeduti Arnaldo da Santa Cilia e Raniero Ranieri da Perugia) e il suo uditore francese Paolo dal Forno. Anzi, meglio: perchè non essemdo impegolati in interessi e faide di cui si è persa l’origine, i forestieri sono più imparziali, come del resto si è sempre pensato fin da quando i liberi comuni sceglievano il podestà sempre al di fuori delle litigiose mura civiche.
Meno bene, sempre dal punto di vista dei Riminesi, che i castelli del contado e del Montefeltro un tempo dei Malatesta nonostante le suppliche fossero rimasti nel Ducato di Urbino. E che a Santarcangelo si fosse concesso di tornare ad essere Vicariato autonomo. Malissimo, poi, come ci si era arrivati: i Santarcangiolesi avevano scatenato l’ennesimo tumulto; per sedarlo era stato spedito Piero Visconti con ordine di incendiare la cittadina, ma inopinatamente ai rivoltosi era stata poi data piena ragione.
Inoltre, qualcosa più che un mugugno si era levato nel contado contro la tassa per pagare i balestrieri del Borgia. Mentre in città più di uno era era rimasto costernato dal progetto del Valentino di abbattere la cattedrale di Santa Colomba per pure ragioni militari: non tanto perché la millenaria basilica fosse alquanto malridotta, come in effetti era, ma solo per la troppa vicinanza a Castel Sismondo e quindi possibile punto di appoggio per eventuali assalitori.
In ogni caso si manifestarono inquietanti segnali di spopolamento, con molte famiglie, soprattutto benestanti, fuggite nel contado e perfino in altre città dove la vita era meno turbolenta; o che offrissero più prospettive rispetto alla capitale di uno stato che non esisteva più. Atteggiamenti severamente puniti, con reiterati obblighi a risiedere fra le mura pena confische; ma, a quanto pare, con scarso effetto.
Tutto sommato, a quanto riportano le cronache, la maggior parte dei cittadini era però soddisfatta nel nuovo corso, mentre il disegno del Duca pareva procedere per il meglio: avrebbe diviso il governo dei suoi domini fra quattro Commissari: Forli, Faenza ed Imola a Don Cristoforo a Turre; Cesena, Rimini e Pesaro a Don Girolamo Bonadia; Fano, Senigallia e Fossombrone e Pergola a M. Andrea Cossa; il Ducato d’Urbino col Montefeltro a Don Pietro Remires. Mentre continuava la sua azione per estendere con le armi il suo personale dominio a Città di Castello, Perugia, Siena e oltre.
Ma il 18 agosto del 1503 Alessandro VI muore improvvisamente. E il suo successore, Pio III (Francesco Todeschini Piccolomini), lo seguirà nella tomba dopo appena un mese. Nel caos di quei giorni, Venezia sobilla i signorotti romagnoli a riprendersi le loro città e intanto occupa Cesenatico e Santarcangelo.
E Pandolfaccio prende la palla al balzo: da Ravenna piomba a Rimini assieme al fratello Carlo e con l’aiuto del Duca di Urbino, che si è ripreso San Leo e la difende con gli artigli.
La plebe apre le porte al Malatesta, ma, come scrive Carlo Tonini, arriva il faentino Dionisio Naldi, fedele al Borgia, «con buon nerbo d’uomini di Val del Lamone e coi fuorusciti, gli diè si fiera battaglia per le vie stesse della città, che lo costrinse a cedere e fuggire a briglia sciolta: e buon fu per lui che Nicolò Marchèselli, un de’ capi de’ fuorusciti, per la troppa avidità e furia, onde inseguivalo, cadde sotto al cavallo. Grande fu la ferocia e insieme la confusione di quel combattimento, essendoché lo stesso Naldi restò ferito nel capo da una pietra gettata da una finestra contro Pandolfo, e cadde creduto morto, sebbene poi facilmente si riavesse. I vincitori, tornati dall’inseguire i fuggenti, saccheggiarono le case de’ fautori dei Malatesti e fecero le vendette, che il furore di parte in simili casi suole persuadere».
E’ solo un assaggio. Pandolfaccio fomenta una ribellione nel contado, da cui i suoi fedeli riescono a introdursi in città, dove bruciano in piazza i libri dei dazi «sì camerali e sì comunali» e occupano Porta S. Andrea, facendo sapere a Pandolfo che la via è libera. Ma lui non fa in tempo a raccogliere l’invito che il governatore del Borgia reagisce e li ricaccia, incarcera i complici veri e presunti che agiscono in città e uno, «tal Giovanni Carretta, trovato motore e capo del tumulto, ne ebbe in pena la forca».
Ma Pandolfo è ancora a Ravenna e sempre con l’aiuto veneziano raccoglie nuove forze e riappare sotto le mura di Rimini: «Da un trombetta fece intimare alla città — si arrendesse. — Ma il trombetta arrogante, come dice il Clementini, fu preso dal castellano e subito impiccato». Pandolfo, trincerato nell’abbazia di Scolca, dopo qualche scaramuccia sferra allora un attacco al Borgo San Giuliano e lo prende. Il Naldi e i fuorusciti a quel punto se la danno a gambe e Malatesta può trionfalmente entrare a Rimini da Porta Marina: è il 6 settembre 1503.
Seguono, ovviamente, il saccheggio del palazzo del luogotenente ducale, dei banchi degli ebrei e delle case dei fuorusciti. Le cose non sono del tutto a posto, visto che la rocca è ancora in mano ai fautori del Borgia (la cederanno solo il 20 ottobre) e che il 30 settembre i nuovi fuorusciti, cioè i borgeschi, fanno irruzione in città e vi scorazzano per diversi giorni, «con danno e con distruzione delle case e delle sostanze dei cittadini».
«Onde – conclude sconsolato il Tonini – non diremo esagerato ciò che sotto il novembre dello stesso anno registrò ne’ suoi Diarii Marino Sanuto; cioè che Rimini poteva dirsi ruinata e disfatta, non altro più rimanendovi che i muri alle case».