3 marzo – L’ultimo giorno del destino, finiscono i “dè dla Canucèra”
3 Marzo 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 3 marzo la Chiesa cattolica commemora Santa Cunegonda (975-1024) che fu imperatrice del Sacro Romano Impero dal 1014 alla morte. Kunigunde von Luxemburg fu la piissima moglie di Enrico II, l’ultimo degli imperatori della casa di Sassonia e Santo a sua volta. Non ebbero figli, forse per sterilità, forse per voto di castità. Quando restò vedova, Cunegonda tenne le redini dell’impero fino all’elezione del successore, Corrado II di Franconia detto il Salico, per poi ritirarsi in monastero. E’ la patrona di Bamberga nel nord della Baviera, dove la Santa coppia imperiale è sepolta, del Lussemburgo, della Lituania e della Polonia.
Per il suono aspro e solenne, il nome Cunegonda non ebbe una gran fortuna in Italia, tranne che in una parte del Veneto, in Emilia e in Romagna. Fatto sta che Gianni Quondamatteo reca ben chiara nel suo Luneri rumagnol l’intitolazione di Senta Cunegonda al giorno del tre ad Merz.
Ma lo stesso autore riminese (in “Tremila modi di dire dialettali in Romagna”, Galeati 1974) ci ricorda dell’altro: questo è l’ultimo dei de dla Canucera: «La Canucèra non può essere altri che la Parca, quella dei Romani, raffigurata dagli antichi nell’atto di filare alla conocchia (di qui l’appellativo ‘canucèra’, conocchiaia). Essa, come si sa, presiedeva alla vita e alla morte».
E prosegue: «I giorni in cui vi era un’ora tutta sua, erano – secondo la tradizione recentemente raccolta a Cannuzzo, località sulla destra del Savio dove inizia la via Ravennate) – sei: gli ultimi tre di febbraio e i primi tre di marzo. Quei giorni che precedevano e iniziavano l’anno, secondo il più antico calendario romano, erano qualcosa come il nostro Ognissanti: tutte le divinità, indigene o importate, vi avevano un posticino. La vecchia Parca si era riservata un’ora, senza dire ai mortali quale fosse, e i pii Romani, a evitare la sua suscettibilità, e i relativi guai, non accudivano né alla potatura né ad altri lavori importanti».
Non solo: «Anche i nati nell’ora dla canucèra si dicevano o sentivano perseguitati dalla sfortuna. Si dice ancora nella zona cui ho accennato, “e’ pê ch’a sia nêd par la Canucèra!”» (sembra nato per la Canucèra)».
Le Parche romane, come le Moire greche e le Norne germaniche, erano tre; una filava, l’altra determinava l’intreccio del destino, la terza recideva il filo della vita. Nel Foro di Roma le loro statue erano dette Tria Fata (“i tre destini”) e anche loro, presiedendo al Fato, erano perciò chiamate anche Fatae. Ancora oggi gli inglesi traducono Parche con Fates.
Del resto, secondo una scuola antropologica, si tratta di un’unica entità: l’ennesima manifestazione della Grande Dea Madre, divinità lunare suprema, se non l’unica, durante l’ipotizzata preistoria matriarcale pre-indoeuropea. Dea sempre una e trina come tre sono le fasi della luna e tre le età della donna: vergine, madre, megera. Mentre nell’originaria religione romana, prima dell’identificazione con le divinità greche, la Parca era una sola e presiedeva alla nascita (par(i)ere; partorire), il nome finì poi per designare solo terza, quella della morte.
Quei giorni erano detti anche i dè dal fugarèn, quelle che nel ravennate solo le fogarine, come nel riminese le fogheracce: perché in tutto questo periodo, e non solo il giorno canonico di San Jusef, la notte si accendeva dei falò che propiziavano il nuovo anno. In questi giorni esattamente coincicidenti con quelli della canucèra i fuochi si chiamavano Lom a mêrz.
Quondamatteo ci informa anche che “I cristiani accettarono e trasferirono al primo giorno di Quaresima la superstizione pagana della Canucèra, divenuto uno spirito vendicativo avverso a chi iniziasse, in tal giorno, un lavoro tanto importante qual’era il bucato. Ancora oggi si evita il bucato nel giorno di Quaresima, perché non verrebbe bene, perché la biancheria ne uscirebbe con strane tracce scure, per via della Canucèra. “L’è pasa la Canucèra!” dirà in questa eventualità la donna del popolo».
(nell’immagine in apertura, “Le tre Parche” di Bernardo Strozzi, prima del 1664)
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