HomeAlmanacco quotidiano2 aprile 1832 – Muore Ottavio Zollio, il vescovo “liberale” di Rimini

Nel pieno delle rivoluzioni fece di tutto per evitare spargimenti di sangue, mentre il suo collega di Cesena lodava le stragi dei pontifici nella sua città e a Forlì


2 aprile 1832 – Muore Ottavio Zollio, il vescovo “liberale” di Rimini


2 Aprile 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Il 2 aprile 1832 Ottavio Zollio, “patrizio e vescovo riminese, morì d’anni LXXI; ebbe uffici anche fuori d’Italia, fece ripristinare l’Università d’Urbino, della quale fu Visitatore Apostolico”.

La famiglia Zollio (talvolta anche Zolio o Zollo) era di origine bergamasca e ascritta al patriziato veneziano fra le cosiddette Case fatte per soldo. I fratelli Giovanni, Antonio e Girolamo Zolio, trasferitisi in laguna, vi praticarono per lungo tempo il commercio dell’olio e dei salumi. Possedevano una propria bottega in riva dell’oglio a San Cassiano (sestiere San Polo), all’Insegna della Fenice, e pare gestissero la propria piccola impresa in prima persona, vendendo «loro stessi con le proprie mani la propria mercanzia». A quell’epoca, sembra che gli Zollio risiedessero a San Stae, in sestiere Santa Croce. Arricchitisi considerevolmente tramite la propria attività commerciale, gli Zollio furono in grado di versare alle casse della Repubblica (allora impegnata nella guerra di Candia contro i Turchi) i centomila ducati previsti per l’aggregazione al patriziato cittadino. Le votazioni per la ratifica del loro ingresso in seno al corpo patrizio avvennero il 21 marzo 1656, e si risolsero favorevolmente sia in Senato (123 a favore, 32 contrari, 21 astenuti) sia in Maggior Consiglio (707 a favore, 244 contrari, 34 astenuti). Marcantonio Zollio, nato a Bergamo e patrizio, fu vescovo di Crema dal 1684 al 1702. Marco Antonio Zollio era stato invece vescovo di Rimini dal 1752 al ’57. Al 1780, questa casa era ristretta a un solo patrizio, coniugatosi l’anno precedente con la nobildonna Maria di Lorenzo Contarini. Nel 1797, anno della caduta della Serenissima, gli Zolio compaiono tra le famiglie ancora presenti in Maggior Consiglio.

Palazzo Zollio a Mira, sulla riviera del Brenta

Nato a Montegridolfo il 12 (o 13) ottobre 1760 Ottavio era figlio del conte Giovan Battista Zollio e della nobildonna riminese Silvia Gironi. I conti Zollio avevano il loro grande palazzo a Rimini all’attuale Corso d’Augusto 115; era già stato dei Ripa, passerà poi ai Salvoni e vi si conservava un autentico tesoro di opere d’arte, a cominciare da dipinti del Guercino.

Il palazzo che fu dei conti Zollio in Corso D’Augusto

Consacrato sacerdote il 20 settembre 1783, Ottavio compie gli studi al Collegio Nazareno di Roma (fondato nel 1622 dal cardinale riminese Michelangelo Tonti). Diventa, giovanissimo, Canonico della cattedrale di Rimini. Nel 1801 è Vicario Generale della diocesi riminese. In tal veste partecipa alla Consulta di Lione, in rappresentanza del vescovo Vincenzo Ferretti. Poi nel 1805 accompagnerà lo stesso Ferretti a Milano dal vicerè d’Italia Eugenio Beauharnais, ottenendo fra l’altro la facoltà di trasferire la cattedrale da Sant’Agostino al Tempio Malatestiano. Ma dovrà assistere il vescovo anche nel ridurre le parrocchie della città.

“Addottrinatissimo nella Scienza Ecclesiastica” lo definisce don Gaetano Vitali nelle sue “Memorie storiche” di Montefiore Conca (1828). L’avvocato riminese Domenico Missiroli lo dice “dotto, affabile, misericorde, prudente”. Nel 1822 diventa vescovo di Pesaro.

Ottavio Zollio Canonico della cattedrale di Rimini

Ottavio Zollio è consacrato vescovo di Rimini il 24 maggio 1824.

Il 10 dicembre 1830 consegna a Maria Elisabetta Renzi e alla sua comunità le regole delle Maestre Pie Filippini di Roma, già approvate da papa Clemente XI, e il nome di “Maestre Pie dell’Addolorata”.

Maria Elisabetta Renzi

Il 19 febbraio 1831 il vescovo Zollio scrive un editto al “dilettissimo suo popolo” per esprimere “il contento da cui è inondato” il suo cuore, “alla vista dell’ordine, della tranquillità e pace” che regnavano in città. Richiamato il “dolce precetto lasciatoci per testamento da Gesù Cristo, di amarci scambievolmente come egli ci amò”, il vescovo prosegue: “Continuate costantemente, o figli, a battere il sentiero della pace: e voi specialmente, laboriosi cultori dei campi, non date luoghi a sospetti che si mediti strapparvi dai vostri quieti focolari per condurvi violentemente fra lo strepito delle armi”.

Lo stemma originale della famiglia Zollio e quella del vescovo Ottavio nel palazzo di famiglia

Questo quadro idilliaco viene dipinto mentre è in corso una rivoluzione: infatti, il 5 febbraio le Legazioni di Bologna, Ferrara, Forlì (di cui fa parte Rimini) e Ravenna hanno dichiarato la secessione dallo Stato della Chiesa. In rivolta anche le Legazioni delle Marche e dell’Umbria, mentre i “liberali” che hanno proclamato le Province Unite Italiane vanno a combattere i “papalini” fino al reatino.

Ma c’è anche chi – e certamente nelle campagne sono la maggioranza – non sta dalla parte della rivoluzione. Sulle orme degli “insorgenti” anti napoleonici, i contadini si organizzano in bande dai metodi spicci per difendere il Papa Re dai repubblicani. Ebbene, il vescovo Zollio parla di costoro come “difensori della religione, nemici dei liberali, ma soprattutto bramosi di denaro“. E invece così esorta i suoi fedeli: “Fidatevi dei magistrati, che con tanto zelo vegliano sulla vostra sicurezza, e riposate sulle provvide cure di quel Dio, che si compiace di chiamarsi il Dio di pace e di amore”; dove i magistrati sono quelli appunto liberali e repubblicani delle Province Unite Italiane, l’effimero stato creato dai rivoluzionari che avevano dichiarato finito il potere temporale del Papa. Ma Zollio rassicura anche loro: ha raccomandato ai parroci del forese di mantenere la pace e la tranquillità nel contado.

Al che il vicario Brioli, il vescovo e il vicario foraneo di Pesaro, il canonico Lanzoni di Cesena e l’ex governatore di Rimini Vincenzo Grassi, denunciano a Roma Zollio e altri cinque sacerdoti diocesani, come fautori delle idee liberali. 

Scrive Antonio Montanari: “In un saggio (1860) di Atto Vannucci sui martiri della libertà italiana tra la fine del 1700 e la prima metà del sec. XIX, si ricorda che Zollio ed il suo collega di Cervia si contrappongono alla Santa Sede nell’offrire un’immagine positiva della situazione. Nelle loro “pastorali stampate attestarono al mondo l’ordine, la concordia e la pace che regnavano fra tutti gli insorti” che il cardinal Bernetti chiamava ‘ribaldi, scellerati e ladri’. Giuseppe La Farina (Storia d’Italia dal 1815 al 1850, II, pp. 93-94) ricorda che Zollio, con la pastorale del 19 febbraio, sbugiarda il cardinale Bernetti, invitando i “laboriosi cultori de’ campi” a non dar “luogo a’ sospetti che si mediti di strapparvi dai vostri queti focolari per condurvi fra lo strepito delle armi”.
Zollio ben presto finisce nell’elenco di quei religiosi sospetti d’intesa con il nemico politico della Chiesa, che qualcuno vedrebbe ben volentieri colpito da censura ecclesiastica.
Come scriveva Giulio Cesare Mengozzi nel foglio riminese “Il diario cattolico” dell’11.4.1936, nell’estate del 1831 a Rimini appare una nota sui sacerdoti (presunti) “scomunicati” quali “fautori e aderenti agli atti” d’insubordinazione dei liberali riminese, contenente pure il nome del vescovo Zollio“.

Scudo di papa Gregorio XVI coniato nel 1831

Ma Zollio resta al suo posto. La sua moderazione e il suo spirito conciliante, teso innanzi tutto a evitare o almeno limitare lo spargimento di sangue, a Rimini come a Roma sono molto più apprezzati dei fomentatori di scontri.

E ce n’è bisogno, perché anche dopo la battaglia delle Celle e la fine dello stato repubblicano, la tensione è ancora alta in tutta la Romagna. Il 5 giugno di quel 1831 a Rimini  c’è un “gran tumulto” dei liberali al grido di “Morte al Papa, ai Cardinali e Preti”Le manifestazioni proseguono per un mese e oltre: “tutta la città era presa da nuovi timori e da nuove angustie”. E il 10 luglio, annota il cronista Filippo Giangi “quattro ne rimasero feriti lievemente ed uno mortalmente che è un giovane Federici figlio di pescivendolo. Gli altri sono: P. Bagli di Pellegrino, Pagliarani di Fortunato, Patrignani Fabbro ed un altro che è noto”. Nel gennaio 1832, in occasione dell’ennesima sollevazione, le truppe papaline avrebbero commesso le stragi di Cesena e Forlì.

Il soldati pontifici saccheggiano Cesena nel gennaio 1832

Il 10 gennaio 1832, a seguito del protrarsi della rivolta in Romagna, il segretario di stato vaticano, cardinal Tommaso Bernetti, notificò agli ambasciatori degli stati facenti parte della Quintuplice Alleanza l’intenzione del governo pontificio di spedire truppe nella Legazione di Forlì per disciogliervi le guardie civiche e ristabilirvi la sovranità del pontefice. Ottenne il nulla osta degli ambasciatori di Francia, Austria e Russia ma non quello di Lord Seymour, ambasciatore inglese il quale, predicendo guai, si ritirò a Firenze. Nel frattempo i colonnelli Zamboni a Ferrara e Bentivoglio (poi sostituito prima dei combattimenti dal colonnello Barbieri) armarono a Rimini 5000 uomini, cui si aggiunsero due reggimenti di mercenari svizzeri. Il legato pontificio cardinal Albani  mise alla testa delle forze il barone austriaco Marchal.

Il Cardinale Giuseppe Albani

La guardia civica romagnola, comandata dal maggiore Sebastiano Montallegri di Faenza coi capitani Belluzzi, Conti, Landi e Picconi si mosse affrontandole in battaglia sulla collina della Madonna del Monte di Cesena. In 2000 contro 4000, senza cavalleria e con 3 pezzi d’artiglieri contro 8, i liberali non poterono resistere più di due ore. Ucciso il loro capo cesenate Paluzzi insieme a circa 200 uomini, i patrioti romagnoli si dispersero nella campagna, conando sulla guerriglia per impedire alle truppe pontificie fare massa. Ma queste si diedero invece a saccheggiare Cesena, uccidendo chi si opponeva, depredando persino l’abbazia della Madonna del Monte e il monastero di Pio VII unito a questa, rubando anche parte del medagliere di Pio VII; in città furono saccheggiate varie case e la chiesa dei Servi. Assicurato il controllo di Cesena, il vescovo Monsignor Antonio Maria Cadolini si congratulò con le “gloriose” truppe vincitrici. Si contarono 17 vittime fra i cittadini, oltre ad altri feriti e con molte donne che furono violentate, comprese alcune che vivevano nei monasteri.

Antonio Maria Cadolini vescovo di Cesena, poi della natìa Ancona e cardinale

Una testimonianza di quelle violenze è data da due volumi, facenti parte della storica biblioteca del monastero, dell’opera di Giustino Febronio, De statu ecclesiae et legitima potestate romani pontificis, nei quali si conficcò una pallottola di fucile; a ricordo degli eventi don Gregorio Amadori, al tempo bibliotecario di Cesena, scrisse in questi libri:

«A perenne ricordanza. – A dì 20. Gennaio 1832. – Quando le Truppe Papali capitanate dal Cardinale Albani avanzarono nella bella Emilia per ritornarla sotto il giogo Clericale, il Monastero di Pio Settimo venne ingiustamente, e vandalicamente saccheggiato. Questo luogo sacro alle Scienze non venne risparmiato. Febbronio che tanto scrisse della Chiesa, e della podestà Pontificia altamente ne fa lamentazione, e addita ai presenti, e futuri la gloriosa giornata, e la barbarie della Clericale Milizia»

Dopo quanto avvenuto, il giorno seguente gli amministratori di Forlì si presentarono terrorizzati al cardinale Albani facendo atto di sottomissione. La città venne occupata da 3000 fanti e 300 cavalieri pontifici in un clima tesissimo. Quando un colpo di fucile uccise un militare, la truppa iniziò a gridare “all’armi! Al sacco, ammazzate, ammazzate”. Altra, carneficina, ben evidente il giorno seguente al cardinale Albani quando entrò in città. Il numero delle vittime sarebbe stato di 21 morti (tra cui due donne, di cui una incinta) e sessanta feriti. Il cardinale propose anche di multare la cittadinanza per aiutare le famiglie dei caduti, affidando al fedele corpo dei centurioni il compito di mantenere l’ordine pubblico.

Furono fatti come questi a scavare un baratro incolmabile fra lo stato pontificio e la Romagna, compreso come si è visto il suo clero. E a far risaltare per contrasto l’atteggiamento del vescovo di Rimini.

Il prete Giuseppe Cappelletti, in “Le Chiese d’Italia dalla loro origine fino ai giorni nostri” (Venezia, 1844), scrive di Zollio: “Questo dotto e pio vescovo, la cui memoria è in benedizione nell’animo dei riminesi, compì fedelmente le parti di zelante pastore col correggere i disordini, coll’estirpare gli abusi, col porre nel miglior lustro l’ecclesiastica disciplina”.

Ma alla sua morte il 2 aprile 1832 fu nominato vescovo di Rimini lo spoletano Francesco Gentilini: “Né di lui – prosegue Cappelletti – né del suo governo io voglio parlare; troppo il suo amore per l’eccessivo lusso, il suo imperioso trattare, il suo sconsigliato modo di regolare gli affari lo resero oggetto delle dicerie, degl’insulti, dell’odio di tutto il suo gregge: non trovai un solo in Rimini, che gli fosse amico. E poiché da siffatte cose danno gravissimo alla religione veniva, e scandalo incalcolabile, il regnante pontefice lo indusse a chiedere di essere sollevato dal peso della vescovile dignità“. E così dopo Cesena e Forlì, anche Rimini era defintivamente perduta alla causa papalina.