1 febbraio 1814 – Arriva a Rimini Gioacchino Murat
1 Febbraio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Alla fine del gennaio 1814, come scrive Carlo Tonini, «continuavano i diversi e incerti movimenti delle truppe Napoletane, e i nostri non comprendevano a qual fine». Sono i soldati di Gioacchino Murat, posto sul trono di Napoli da Napoleone, del quale è anche diventato cognato avendone sposato la sorella Carolina.
«Ma re Gioacchino, amico più della propria fortuna e del regno che di Napoleone, nello sfacelo delle forze di quest’ultimo, avea già risoluto di accostarsi alla parte che prevaleva; e quindi, durante quel continuo andirivieni di truppe, che tanti danni e tante molestie cagionava alle popolazioni coi soprusi, colle violenze e colle pretensioni d’ogni genere, (le quali a descrivere minutamente sarebbe necessario un lungo capitolo) ciò che di più interessante si vide fu nel gennaio del 1814 il ripetuto venire di ufficiali austriaci e il loro stringersi a secreti colloqui col generale Carascosa mentre si trovava in Rimini». Il palermitano generale di divisione Michele Carrascosa, già comamdante della piazza di Napoli, era fedelissimo a Murat quanto ostile ai Francesi.
A far da intermediario fra Austriaci e Napoletani c’è anche un riminese: il Marchese Alessandro Belmonti Cima, che ricopre l’importante incarico di Capitano del Porto. Si dice che abbia accompagnato un ufficiale asburgico ad Ancona per incontrare in Re in persona, il quale presto sarebbe giunto a sua volta a Rimini.
Intanto le truppe di Murat, «che erano passate a Verucchio col pretesto di sorprendere i fuorusciti», occupano di sorpresa lo strategico Forte di San Leo scacciandone i Francesi, vi lasciano una guarnigione e poi tornano a Rimini.
I «fuorusciti», cioè i disertori dell’esercito napoletano, ci sono però davvero e continuano indisturbati a infestare le campagne con impegno pari a quello dei soldati regolari; i primi «cogli gli spogliamenti e coi ladroneggi camuffati dal pretesto di foraggiare e di dar la caccia ai briganti», i secondi «cogli assalti alle proprietà e colle vessazioni ai paesani».
La mattina del 21 gennaio la “piazza maggiore” di Rimini (l’attuale Piazza Tre Martiri) si ritrova all’improvviso occupata da 3 mila soldati napoletani schierati a battaglia. Permettono ai militari francesi di tornarsene in patria, cosa che fanno prontamente seguendo il loro capitano Battaille, che era comandante della piazza. Ai coscritti italiani in forza alle truppe francesi viene invece lasciata libertà di andarsene con loro o abbandonare il servizio, «e quasi tutti rimasero».
Dopo di che tutte le autorità del Dipartimento tranne il Podestà vengono deposte e sostituite provvisoriamente da un prefetto, mentre il generale d’Ambrosio, comandante la seconda divisione dell’esercito Napoletano, mette i sigilli alla casse del Comune.
Il giorno dopo il Podestà emana due proclami. Con il primo si annuncia la prossima venuta del Re e si ordina di tenersi pronti ad accoglierlo degnamente: con tappeti alle finestre sul Corso se fosse arrivato di giorno, «con la città tutta di vaga luminaria se di notte». Col secondo, per indorare la pillola delle continue vessazioni delle truppe, si ribassa il prezzo del sale.
Il 31 gennaio il generale d’Ambrosio firma in Rimini un ordine del giorno che annuncia l’armistizio fra gli Inglesi e il Re di Napoli, «al che terrebbe dietro, come nell’ordine stesso dicevasi, un trattato di pace definitiva, e quindi col riaprirsi all’industria, alle arti, al commercio i porti delle provincie d’Italia insìno al Po, fino allora squallide, estenuate, distrutte e taglieggiate dalle leggi imperiose della forza».
E cioè dall’implacabile blocco navale che gli Inglesi avevano imposto su tutti i mari agli stati controllati da Napoleone, impiegando i vascelli della flotta come l’ultimo legno di corsari, più volte apparsi anche lungo la costa romagnola e sempre pronti ad abbordare ogni naviglio, quelli da pesca compresi, e a sbarchi con razzie e sabotaggi.
Si fa poi circolare per la città una relazione stampata che svela quello che tutti già sanno da un pezzo, cioè il sequestro e i maltrattamenti inflitti da Napoleone a Papa Pio VII che durano dal 1809 per estorcergli un concordato (che lui rifiuta fino alla liberazione ad opera degli austriaci in quel 1814): «onde vie maggiormente pareva potersi forse giustificare la defezione di Re Gioacchino».
Finalmente tutte le dicerie prendono corpo: «Alle ore 8 antimeridiane del 1 febbraio, dopo che tutto il corpo de’ Napoletani ebbe presa la marcia verso Cesena, giunse lo stesso Re col seguito di molte carrozze. Eraglisi preparato l’alloggio con sontuoso desinare nel palazzo del conte Gaetano Gaspare Battaglini: ma egli, dopo una breve dimora alla Locanda della posta senza pur discendere di carrozza, ricevuti appena gli omaggi delle autorità costituite e del Vescovo M.” Ridolfi, prosegui il suo cammino alla volta di Bologna».
Tutto qui. Via i tappeti e inutili le luminarie. Senza che nessuno, quel giorno, potesse immaginare che il nome di Gioacchino Murat sarebbe rimasto indissolubilmente legato a quello di Rimini per tutt’altro: il “Proclama di Rimini” che tanta importanza avrebbe acquistato durante il Risorgimento italiano.