2 gennaio 1578 – Aperta la Via Sangiorgia, per i Riminesi “la Polverara”
2 Gennaio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 2 gennaio 1578, come scrive Carlo Tonini, a Rimini «fu dato effetto alla deliberazione di costruire una via che direttamente conducesse alla chiesa de’ Cappuccini o del Crocifisso, ed altre che procedesse fino al monastero di Scolca, e si volle si appellasse la via Sangiorgia dal nome di M. Francesco Sangiorgi Presidente di Romagna».
E’ l’attuale via Covignano, che mai il popolo ha chiamato “Sangiorgia”, nonostante la deferente intitolazione ufficiale. Per tutti, e anche nei documenti ufficiali, è sempre stata la Polverara, in dialetto Poibrera (se si è cittadini) o Puibrera (se si è di Covignano).
Nonostante fosse certamente polverosa, come un tempo quasi tutte, la strada non prese il nome da questa caratteristica, ma da quello di un fondo agricolo nominato già nel medio evo.
Luigi Tonini infatti cita fra le altre una pergamena «vista dal Garampi nell’Archivio di S. Agostino, in cui leggevasi: in territorio S. Andree et fundo Maxdogne, sive Polverarie». E prosegue: «La fossa che poi passa per la Polverara ebbe lo stesso nome». E ancora: «Noi abbiamo per memorie sicure che il fondo oggi detto la Polverara fuori Porta S.Andrea ebbe nome nome di Masdegna, Maxdogna, Masidogna, Macidonia, e Mons Donegatus».
La «bella e dritta strada» alberata era una regolarizzazione dei precedenti percorsi che portavano a Covignano. Un itinerario carico di significati sacri e simbolici fin dalla più remota antichità riminese. Rimini “sentiva” di avere le sue radici più profonde sui colli che la dominano. E l’archeologia ha dimostrato che la sensazione era esatta: nel sito del Seminario è stato ritrovato un villaggio “villanoviano” (cioè dei primissimi Etruschi) abitato molti secoli prima che i Romani fondassero Ariminum. Rinvenuta nello stesso luogo anche la tomba di un guerriero, mentre tutto il complesso dei colli continua a restituire reperti.
Qui erano le fonti, come quella della Galvanina o del Ghetto Castellaccio; qui avevano dimora le divinità autoctone e ci si recava a trovarle per chiedere grazie rendere i dovuti sacrifici. Perfino in alto mare, era al colle sempre visibile e ai suoi numi tutelari che i pescatori in difficoltà si rivolgevano per invocare la salvezza. Qui era il punto strategico di osservazione che “teneva” la città e probabilmente vi è sempre esistito un posto di guardia (“Sculca” sia per i “bizantini” che i Longobardi, forse dal germanico skulken, “spiare”). Qui sorsero pievi, abbazie e i santuari più importanti e venerati: S. Lorenzo a Monte (pieve citata la prima volta nel 976), l’abbazia di S. Maria Annunziata Nuova di Scolca (1418), il convento di Santa Maria delle Grazie (1286/1391), il convento dei Gerolimini (1393).
L’occasione principale per il percorso simbolico lungo la Polverara era il Lunedì di Pasqua, quando si teneva il Somarlungo, pellegrinaggio collettivo sentitissimo soprattutto dagli abitanti del Borgo Marina.
Come ogni viaggio sacro, esistevano delle “stazioni” presso cui fare sosta. Una era l’oratorio della Madonna della Polverara, così descritto da Marco Ferrini su Rimini2.0:
«Il culto risale al 1604, quando il cappuccino Simpliciano da Como, dopo essersi rivolto ad un’immagine che la ritraeva, ricevette la prima grazia guarendo da una gravissima malattia. L’oggetto del culto era costituto da un dipinto, attribuito al pittore riminese Annibale Fada, raffigurante una Madonna col Bambino, inizialmente situato sopra un palo in via Covignano. Dopo aver elargito numerose grazie, l’immagine sacra si guadagnò la devozione dei fedeli che, ricevuto il consenso del vescovo e un contributo economico, fecero costruire una chiesa. Nel 1693 il quadro del Fada venne sostituto con un altro dipinto, proveniente da una nicchia che si trovava al “Molinaccio”, l’attuale via Monte Titano. Questa è ora l’immagine che viene venerata ed è custodita dalla famiglia Clementoni che provvede da anni al mantenimento dell’oratorio».