18 aprile 1512 – Il vicerè di Napoli arriva a Cattolica e rischia la pelle
18 Aprile 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 18 aprile 1512, a Cattolica, il Viceré di Napoli Raimondo Folch de Cardona, il catalano Ramon Folc III de Cardona-Anglesola Barone di Bellpuig, Conte di Alvito e Duca di Somma, passa un brutto quarto d’ora.
Ma cosa ci fa il Vicerè a Cattolica? E cosa gli è successo? Per capirlo bisogna andare indietro di qualche giorno, fino a quella fatale domenica dell’11 aprile 1512, Pasqua di Resurrezione, in cui si combatte la battaglia di Ravenna, una delle più sanguinose dell’età moderna in Italia. Avevano vinto i Francesi di Gaston de Foix e il loro alleato Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, contro gli Spagnoli, comandati appunto da Raimondo de Cardona, e i Pontifici di Fabrizio I e Marco Antonio I Colonna.
Non eserciti nazionali, ma compagnie di mercenari, capitani compresi; così, per esempio, si ritrovano armigeri italiani e lanzichenecchi tedeschi in entrambi gli schieramenti. E in quella giornata si affrontano tutti i condottieri più celebri dell’epoca.
Al soldo della Lega Santa (Papa, Imperatore, i re di Aragona e Inghilterra, i Cantoni svizzeri e Venezia) si trovano: Antonio di Leyva, Fernando d’Avalos Marchese di Pescara, Raffaele de’ Pazzi, Francisco de Carvajal. Ci sono anche Ettore Fieramosca, Romanello da Forlì, Fanfulla da Lodi, Giovanni Capoccio, Guglielmo Albimonte, Mariano Abignente, Giovanni Brancaleone: nel 1503 erano fra i tredici italiani della disfida di Barletta.
Con Francesi ed Estensi: Carlo III di Borbone, Teodoro Trivulzio, il cavalier Baiardo, Odet de Foix, Federico Gonzaga, Jacques de La Palice (“Qui giace il signor de La Palice, se non fosse morto, sarebbe ancora in vita”: da cui “lapalissiano“). A Ravenna c’è anche Francesco Salamone, anche lui reduce di Barletta, ma questa volta con i Francesi.
Sconfitta, la Lega Santa aveva perso circa 5.700 uomini, di cui 2500 morti: due terzi dell’armata, con le tutte le artiglierie e parte delle insegne. Fra i prigionieri eccellenti, il cardinal Legato Giovanni de’ Medici, (che poi sarà papa Leone X), e Fabrizio Colonna.
Ma i Francesi pagano cara la vittoria, con perdite ancora più pesanti, quasi 7 mila uomini, un terzo dell’armata. E sul campo è rimasto il comandante, il ventitreenne Gaston de Foix, Duca di Nemours e detto “Folgore d’Italia”. Anzi, alla fine saranno loro a doversene ritornare oltre le Alpi, lasciando l’Italia agli Spagnoli.
Lo spaventoso numero di 10 mila caduti fu attribuito dai contemporanei alle nuovissime artiglierie ferraresi del Duca Alfonso che, secondo una diceria, sebbene alleato dei Francesi avrebbero sparato imparzialmente nel mucchio poiché, “Sono tutti stranieri nemici degli italiani”.
Ma intanto, subito dopo la disfatta subita, il viceré di Napoli si deve mettere in salvo a Cesena. Marco Antonio Colonna, che presidiava Ravenna, la abbandona lasciandovi solo un piccolo distaccamento e consigliando i cittadini di arrendersi ai Francesi; quindi ripara a Rimini.
Nonostante i patti (avrebbero dovuto entrare in città solo solo Alfonso duca di Ferrara e Pandolfaccio Malatesta, in quel momento bandito da Rimini e al servizio dell’estense) i francesi irrompono in Ravenna con la forza “e ne fecero il più orribile scempio”. A quel punto Faenza, Cervia, Imola, Cesena, Rimini e Forlì mandano al campo francese le chiavi delle città tenendosi solo quelle delle rocche, sperando così di evitare guai peggiori: meglio che quelle chiavi le tengano i Francesi che un po’ di bottino l’han già fatto, piuttosto che doverle dare agli Spagnoli in rotta, disperati, affamati, impoveriti e inferociti.
Infatti, le truppe sbandate camminano notte e giorno verso sud senza niente da mettere sotto i denti, fino a far scoppiare i cavalli anch’essi esausti.
Inoltre, come sempre avveniva in questi casi, sugli sconfitti di una battaglia si sono avventati gli sconfitti di tutti i giorni. Dalle montagne sono calate torme di miserabili, che si uniscono ai contadini della pianura assalendo le colonne dei soldati, sia per derubarli che per vendicarsi delle scorrerie subite poco prima da quelle stesse truppe. Queste non saranno in salvo se non una volta giunte a Pesaro, sotto la protezione degli Sforza.
Ma a infierire non sono solo i “villani”. Si tramanda che l’uomo d’arme ravennate Pietro Pasi, già con Giovanni dalle Bande Nere e ora capitano dei cavalleggeri spagnoli, sia preso a tradimento da un castellano di una rocca di queste parti, spogliato di tutto, trucidato e sepolto in un campo di grano.
E il Viceré Cardona? È Cesare Clementini a raccontare cosa ancora gli capitò dopo aver scampato la sconfitta, l’orribile strage e le i suoi strascichi:
“A’ 18 aprile essendo questi pervenuto alla Cattolica e sentendosi lasso per le lunghe fatiche del corpo e dell’animo, si pose a dormire un poco in un’osteria del villaggio, detta l’osteria di Rossino: del che fatti consapevoli alcuni uomini di S. Gio. in Marignano, si accordarono con gli osti del luogo e congiurarono di levargli la vita, i denari, i cavalli e le robe”.
“Ma in quella che andavano per eseguire lo scellerato consiglio, piacque a Dio che il Viceré si svegliasse, e che veduta da una finestra tal rannata di gente con armi entrare nell’albergo, indovinasse il suo pericolo; onde gettatosi da altissima finestra della parte posteriore della casa, se ne fuggì senza essere veduto; e con gran disagio, sempre camminando a piedi, pervenne alla vicina Pesaro”.
“I ladroni, non avendo potuto aver lui nelle mani, s’impossessarono di quante robe e tesori traeva seco, e in particolare di due pregiatissimi corsieri. E spogliati di ogni aver loro anche i suoi compagni, li lasciarono liberamente partire”.
(nell’immagine in apertura: il sepolcro di Raimondo de Cardona)