HomeCulturaE i nomi dei luoghi diventano l’affascinante racconto della storia di Rimini


E i nomi dei luoghi diventano l’affascinante racconto della storia di Rimini


27 Gennaio 2020 / Paolo Zaghini

Oreste Delucca: “Toponomastica riminese. I nomi dei luoghi raccontano la nostra storia” –  Luisè

Un libro affascinante scritto per raccontare l’evoluzione della nostra città nel corso dei secoli ricorrendo ai toponimi: “Come è noto, dalla parola greca ‘topos’ (luogo) deriva la ‘toponomastica’, cioè la disciplina che si interessa al nome dei vari luoghi (città, paesi, fiumi, vie, piazze ed altri siti).
In passato quei nomi non venivano attribuiti a caso, ma avevano uno stretto legame col territorio, costituivano parte integrante del vissuto quotidiano (…). In sostanza i vecchi ‘toponimi’ ci raccontano sempre qualcosa del passato; se esaminati con attenzione ci offrono un pezzo di storia, ci aiutano a recuperare la memoria”.

Delucca mette a frutto e porta a sintesi in questo volume oltre cinquant’anni di ricerche negli archivi per documentare gli aspetti legati alla cultura materiale: l’agricoltura, l’artigianato, il commercio, la demografia e gli insediamenti, la vita e il lavoro della gente comune. Allo “scavo” condotto sui documenti d’archivio ha associato l’interesse per la ricerca archeologica attraverso l’osservazione del territorio e l’individuazione di insediamenti attraverso segnalazione e recupero dei segni dell’uomo affioranti in superficie.

E’ così che Delucca, percorrendo le attuali vie della Città, legge le storie che esse contengono. Come ha già fatto pubblicando alcune di queste schede su Chiamamicitta.it nella rubrica Le vie della Rimini medievale, ci racconta cosa vi è stato in quel determinato luogo dalla fondazione della colonia romana di Rimini nel 268 a.C. sino all’Ottocento. La sua attenzione è attirata soprattutto da quanto è avvenuto entro le ‘mura’, prima romane, poi medievali.

In questo contesto grande rilevanza hanno le ‘porte’ d’accesso: esse “segnano il materiale punto di distinzione fra città e campagna, fra natura e società, fra esterno ed interno, con tutto quanto ne deriva sul piano giuridico, amministrativo, politico, sociale ed economico”. In epoca romana le ‘porte’ erano probabilmente quattro, molte di più quelle medievali.

E poi le piazze: “Per indicare una piazza si usava di preferenza l’espressione ‘campo’, significando un’area originariamente destinata a funzioni militari, successivamente a funzioni civili”. Quattro le piazze principali che si sono mantenute nel corso dei secoli: la prima in età romana il “campus Fori” era il centro della città, posto all’incrocio fra le due strade principali, il decumano e il cardine massimi. Nel Medioevo era la “Piazza Maggiore”, oggi, dal 1944, è Piazza Tre Martiri.

Nel tardo Medioevo il baricentro della Città si spostò verso “campus Comunis”, ove era stato costruito il palazzo comunale, ma anche dove vi era l’unica fonte di acqua potabile esistente dentro le mura urbane. Oggi Piazza Cavour.
Poi vi erano Piazza del Corso dove sorgevano Castel Sismondo e la cattedrale di S. Colomba. Dal 1862 chiamata Piazza Malatesta. E il Campo dei buoi, in sostanza il Foro Boario, cioè il mercato del bestiame in epoca medievale. Oggi è la larga Via  Raffaele Tosi, sotto Piazza Ferrari.

Dopo le piazze, Delucca ci porta alla scoperta delle numerose piazzette, ben 23, che costellano il centro: queste “in origine costituivano il sagrato delle varie chiese”, oggi ormai distrutte.

Complesso addentrarsi nell’elenco che Delucca fa delle decine di vie, da quelle maggiori a quelle minori. Ognuna con le sue peculiarità, con i fatti qui successi, con i palazzi delle varie famiglie nobiliari, ma anche con le specificità derivanti dalle attività che qui si svolgevano. Ad esempio nella Via dei caligari o pelacani c’erano gli artigiani che lavoravano le pelli e il cuoio, ossia i conciapelle; nella Via dei molini c’erano i mulini ad acqua, “le macchine idrauliche più importanti del Medioevo”. “Il primo molino documentato in città è quello dei Canonici, noto dall’anno 996, situato presso la cattedrale di S. Colomba, soppresso alla metà del Quattrocento”. Nella Via dei tiratoi operavano gli artigiani che trattavano le pezze di panno dopo la tintura.

Ma un’attività particolare era quella che si esercitava nelle vie dei postriboli, a Borgo Marina, attorno al porto. “Le normative statutarie riminesi (come in tutto lo Stato Pontificio) tolleravano la prostituzione, ma ne vietavano la pratica al di fuori del luogo deputato (…). La gestione del postribolo veniva assegnata per bando pubblico, al miglior offerente, il quale doveva pagare un apposito dazio, commisurato agli introiti presunti”.

Grande attenzione Delucca poi dedica ai toponimi derivanti dalla gestione delle acque e dei reflui. “L’acqua dei pozzi era generalmente inquinata e insalubre. Rimini, al pari delle altre città medievali, era molto carente sotto il profilo igienico. Non esisteva un sistema fognario; quello romano era caduto in disuso. Le acque di superficie, bianche e nere, penetravano liberamente nel suolo attraverso le strade a fondo naturale, attraverso i cortili e gli orti (…). Non va poi dimenticata la nutrita presenza in città degli animali da lavoro, da trasporto e di vario genere, con le relative concimaie. E nemmeno l’esistenza di numerosi mestieri che trattavano o producevano sostanze inquinanti”.

Dalle pagine del libro si possono estrapolare tantissime notizie curiose: ad esempio quella che all’altezza delle Celle c’era “un torrione intitolato al Monte della Croce (che lo storico Luigi Tonini adombra potesse coincidere con il Monte della Forca, dove era consuetudine giustiziare i condannati)”.

Oppure: “E le carceri? In passato si trovavano alla base della torre comunale [nel Palazzo dell’Arengo] (…). Stando ai documenti, dovevano trovarvisi almeno due ambienti: uno per gli uomini e uno per le donne. Si dirà che era uno spazio piuttosto piccolo, forse c’erano pochi reati e pochi carcerati? La ragione è un’altra. Se noi studiamo gli statuti medievali ci accorgiamo che – a differenza della giustizia moderna – fra le varie pene non era contemplato il carcere. I rei venivano condannati ad una pena monetaria, o ad una pena corporale, come ad esempio le frustate, il taglio di una mano, di un piede, della lingua, l’impiccagione, il rogo, ecc. In conseguenza di tale sistema che non prevedeva il carcere come pena, vi si trovavano sempre poche persone. In definitiva il carcere non era luogo di espiazione, ma sede provvisoria di custodia cautelare. Un particolare: il carcere non era gratuito: il recluso doveva pagarsi il vitto e la cera (cioè le candele per la illuminazione)”.

O ancora il lazzaretto, “il tipico ricovero dei tempi andati, ove isolare le persone colpite da malattie contagiose e massimamente dalla peste. A tale scopo si cerca di ubicarlo in posizione defilata e distante dalle abitazioni”. E’ Galeotto Malatesta che nel 1486 ne costruisce uno “entro le mura della città, ma nel luogo più appartato e solitario” ovvero sulle vestigia dell’anfiteatro romano. “Non è senza significato ricordare che nel 1486, cioè l’anno precedente, la città era stata colpita da una feroce peste”.

Paolo Zaghini