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Quel ragazzo di Rimini nelle trincee delle Dolomiti


31 Maggio 2020 / Paolo Zaghini

Massimo Gugnoni:  “Il soldato che correva” – Youcanprint.

Devo confessarlo. Una bella copertina e un titolo azzeccato invogliano la lettura di un libro. Questo di Gugnoni me lo sono girato invece da un posto all’altro nel mio studio per mesi. Non mi ispirava. Ma leggendolo ho avuto ancora una volta la conferma che l’apparenza spesso inganna.

E’ un libro molto bello, una storia romanzata di un ragazzo riminese, Edoardo G., nelle trincee dolomitiche della prima guerra mondiale. L’Autore immagina che Edoardo, nel 1933, scriva le proprie memorie inerenti gli anni della guerra, che lui ha vissuto interamente dalla chiamata alla leva nel settembre 1914 sino al congedo a fine 1918. Non solo un diario degli avvenimenti e delle tragiche situazioni vissute in un ambiente ostile, ma anche il tentativo di scandagliare il proprio animo e la propria coscienza, macchiati dalla ferocia dei combattimenti e segnati da indelebili cicatrici interiori.

“Vorrei portarti, caro lettore, dentro la mente di un giovane nemmeno ventenne obbligato a misurarsi con un qualcosa di più grande di lui. Qualcosa di umanamente non sopportabile”.

La partenza di Edoardo è quasi una festa alla fine dell’estate del 1914, tra saluti di parenti e amici alla stazione di Rimini: la guerra in Europa era già iniziata il 28 luglio con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia in seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco avvenuto il 28 giugno a Sarajevo.“Ma a Rimini non ne arrivavano che gli echi lontani. (…) La parola guerra era solamente una parola scritta sulla carta”. L’Italia era ancora in pace.

Dirà poi Edoardo:  “Odio essere definito reduce. Sono un uomo come tanti, nato negli anni sbagliati e a cui il destino ha riservato una generazione svanita sui campi di battaglia”.

Le cifre dei giovani soldati italiani morti nel corso del conflitto sono ballerine: variano, a secondo degli studi, da 560.000 a 650.000. Comunque un’intera generazione spazzata via nella ecatombe della guerra di trincea sulle Dolomiti e sul Carso, combattuta fra l’ingresso dell’Italia nel conflitto il 24 maggio 1915 . Con la rotta dell’esercito italiano a Caporetto fra l’ottobre e il novembre 1917 la linea italiana arretra paurosamente fino al Piave, mentre “La linea del fronte nel settore dolomitico rimase di fatto immutata dall’inizio alla fine delle operazioni belliche”.

Le truppe italiane e austriache si fronteggiarono e massacrarono per anni sui dirupi delle montagne, spostando la linea del fronte da una parte o dall’altra di poche centinaia di metri. “La nostra artiglieria vomita ferro e fuoco come mai avevamo udito in precedenza, è un martellamento continuo ed asfissiante, gli austriaci rispondono, tutte le montagne attorno, nessuna esclusa, risuonano dei combattimenti”.

“La guerra in pochi giorni ci ha reso dei mostri insensibili, abbiamo fatto l’abitudine a ciò che dovrebbe inorridire l’uomo; la morte e l’orrore fanno parte della nostra quotidianità, come il mangiare e il dormire”. “Quel che facciamo appare a noi irragionevole, insensato, probabilmente assurdo, per noi chiara dimostrazione della stupidità umana: ammazzarci a migliaia per delle inutili montagne disabitate. Non possono essere poste domande intelligenti sulla guerra”.

La Prima Guerra Mondiale fu per l’Italia una prova terribile, che rischiò di distruggere la sua fragile unità nazionale costituita appena cinquant’anni prima. Le trincee, al di là degli orrori quotidiani, unirono giovani di tutto il Paese, del Sud e del Nord. Una sofferenza unica e condivisa, spesso in condizioni ambientali al limite delle umane possibilità. “Non abbiamo ripari, non possiamo asciugarci, tutto è bagnato e immerso nell’acqua, quella che cade dall’alto e quella che scorre dal basso. Odio la pioggia, non c’è un soldato che non imprechi contro di essa”.

“Sono fermo da diverse ore, con le mani a tappare le orecchie per non sentire gli spari e le urla, coi rivoli d’acqua ghiacciati che scorrono sulla pelle e sugli indumenti fradici e pesanti a contatto con il corpo che trema senza sosta”.

“La fame è ormai un problema (…) La testa sembra sul punto di scoppiare per la mancanza di sonno che annulla ogni volontà di reagire agli eventi ed elimina ogni forza residua”.

E poi i bombardamenti: “tutt’attorno la terra sussulta ed esplode (…). Più colpi centrano in pieno la trincea facendo strage di uomini, schegge impazzite fendono l’aria per decine e decine di metri, percorrendo l’angusto scavo e non avendo pietà per chi si trovi sul loro cammino. Arti amputati, carni aperte, teste squarciate, ferite orrende, morti a pelo d’acqua (…). La mia vita, la nostra vita, non vale più nulla, se moriremo cesseranno le nostre sofferenze, se sopravvivremo altri momenti simili si perpetueranno fino alla fine della guerra. Siamo qui per morire e così sia. Aspetto”.

Molte le pagine del libro dedicate agli Alpini, oltre che per il loro eroismo nei combattimenti, per l’infaticabile attività di costruttori sulle montagne: di strade, di rifugi, di gallerie, di ponti. Edoardo combatte sui monti sopra Cortina, il Son Pouses, nella zona delle Tre Cime di Lavaredo, delle Tofane, sul monte Piana.

Gugnoni, classe 1967, ha studiato attentamente le mappe, ha percorso i sentieri di quei monti. Le localizzazioni nel suo racconto sono molto precise, mentre le sensazioni, le impressioni di Edoardo sono mediate dalla lettura di decine di libri di memorie scritte nel dopoguerra da militari che avevano vissuto quelle terribili esperienze.

Il libro approfondisce figure diverse: sia eroiche come il tenente Bordon, i compagni d’armi Tino e Tone Deo o abbiette come il capitano Grasso, il maggiore Calici, il comandante generale dell’esercito italiano Cadorna. “Non nutrivamo simpatia per Cadorna. Qualunque soldato sapeva della ferocia con la quale egli si comportava nei confronti dei soldati. Tutti sapevano della facilità con cui spediva gli uomini davanti al plotone d’esecuzione. A volte bastava aver combattuto ma non essere riusciti a sfondare la linea nemica per essere fucilati appena rientrati in trincea. Quel che più mi disgustava di quell’uomo era il suo evidente disprezzo per il valore della vita umana”.

“Durante l’estate venni promosso sergente maggiore, presumo più per mancanza di uomini che per meriti. Ufficiali e sottufficiali morivano con una tale frequenza che spesso intere compagnie rimanevano senza comandante e senza ordini. Dalle retrovie non arrivavano a sufficienza nuovi graduati. Non ce n’erano più”.

E poi Caporetto: “Anni e anni di propaganda ci avevano fatto credere che avremo comunque vinto, nonostante le difficoltà e nessuno di noi immaginava, al contrario, la disfatta. Aspettavamo la caduta dell’impero asburgico, non l’Italia travolta. Come era possibile che il nostro fronte avesse ceduto? Eravamo ben piazzati su ogni singola montagna, se anche qualche reparto avesse ceduto avevamo comunque un buon sistema difensivo che avrebbe fermato il nemico avanzante intrappolandolo come in una tenaglia. Non poteva essere accaduto nel nostro settore. Qualcosa di grosso doveva essere successo da qualche altra parte”.

Dopo il 27 novembre 1917, sul fronte dolomitico gli italiani abbandonano il Cadore con Belluno e Feltre, ma restano abbarbicati al monte Grappa e fanno muro sull’altopiano di Asiago; la via per Verona resta chiusa a Rovereto e così quella per la Lombardia al Tonale. Intanto però il Carso e tutto il Friuli sono perduti. Il primo novembre cede una prima linea arretrata sul Tagliamento, poi una seconda il 6 novembre sul Livenza; si riesce a fermare gli austro-tedeschi solo il 12 novembre sul Piave. Venezia è a meno di 30 km. Luigi Cadorna viene rimosso e sostituito dal generale Armando Diaz.

Edoardo vive la guerra sino alla fine. “Mi resi conto, in quei giorni, di un cambiamento importante: chi aveva combattuto nel millenovecento diciotto lo aveva fatto con spirito diverso rispetto agli anni precedenti (…). Con la cacciata di Cadorna erano cessati gli attacchi suicidi. Se una postazione era imprendibile non si mandavano ondate di uomini al massacro contro la mitragliatrice, ma si aspettava il momento opportuno. Non da meno intervenne anche l’aspetto psicologico: non dovemmo più attaccare gli austriaci per conquistare nuovi territori, ma al contrario difenderci strenuamente da loro, per di più quando ormai sembrava tutto perduto. Era in ballo il destino stesso della patria invasa dallo straniero (…). Mi sembrava quasi che io avessi combattuto una guerra diversa rispetto ai miei nuovi compagni del millenovecento diciotto, motivati, fieri, audaci e attaccati alla bandiera tricolore come mai avevo percepito in precedenza”.

Paolo Zaghini