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E con Nicoletti la poesia ci immerge nella nostra storia


23 Agosto 2020 / Paolo Zaghini

Luca Nicoletti: “Il paese nascosto” – peQuod.

Non me ne vogliano l’amico Luca e i tanti appassionati scrittori di poesie. Ma non è nelle mie corde scrivere all’altezza delle loro rime. Nel caso dell’ultima raccolta di versi di Luca sono convinto di aver letto testi molto belli, pieni di significati, espliciti e reconditi, che non saprei però mai commentare come invece ha fatto il poeta Giancarlo Pontiggia nella sua Prefazione: “La dimensione civile della parola, così cara al poeta, non può che confrontarsi con il destino dell’uomo, con quello sguardo celeste che gli è connaturato, e che lo definisce fin dal suo apparire storico: le ultime sezioni del libro approfondiscono l’utopia politica innestandola in una prospettiva ‘interstellare’ (Ciò che ci divide, in fondo), legando la sostanza lirica, verticale della parola alla sua radice terrestre, al motivo delle mani che si stringono, che disegnano una loro calda intesa”.

A Luca, classe 1961, mi legano i rapporti di amicizia che ho avuto con i suoi genitori, Italo e Rosita Nicoletti, l’affetto comune con il poeta dialettale santarcangiolese Gianni Fucci e una comune esperienza di lavoro: entrambi siamo nati e cresciuti in un albergo e lì abbiamo imparato tante cose.

Negli ultimi quindici anni la necessità di esprimersi lo ha portato a scrivere poesie: questo è il quarto volume dopo “L’essenza del mosaico” (Pazzini, 2006), “Rosa – Sarò” (Raffaelli, 2010) e “Comprensione del crepuscolo” (Passigli, 2015).

Il libro, che contiene poesie scritte fra il 2012 e il 2018, si apre con una dedica in versi: “San Clemente prelude / ad un passaggio alato: nessuno crede / alle poche case di Agello / ma la via per San Savino emerge / dal profondo, scrive sul declivio / altre parole, risolve il nome, e l’assonanza / nella metrica dei campi”. Una dedica ad un territorio amato, l’entroterra riminese, i paesini della Valconca. Come sottolinea Pontiggia “in questi versi ‘Il paese nascosto’ non è solo un paese dell’anima, ma una comunità concreta, un paesaggio ben definito, di cui le ‘poche case di Agello’ rappresentano una testimonianza visibile’.

E poi ancora testi che ricordano con un amore infinito la madre, la sua passione per la fotografia, i libri pensati, scritti ed illustrati assieme, ma “Il ricordo, la memoria, certo … / e pure qualche foto … Si concede / un po’, ma la giornata è lunga, / qualche immagine per il conforto, / poi si passa ad altro”. Ancora Pontiggia: “poesia come custodia di qualcosa che riguarda la vita stessa, e che va disegnandosi nel nome della madre”.

Ho recentemente scritto per la rivista storica on-line e-review un lungo saggio dedicato alle vicende dei cimiteri alleati sulla Linea Gotica, con un focus su quello di Coriano (“I cimiteri di guerra in Romagna. Le vicende del Coriano Ridge War Cemetery”). Se avessi conosciuto in quel momento i versi di apertura di “Axis mundi” di Luca, non avrei esitato a metterli in apertura del saggio: “Sul crinale che diverge, le pietre bianche / del Coriano Ridge War Cemetery / sembrano piccoli denti, lambiti dalle ombre / che cadono sul prato, e disegnano arabeschi. / Dopo il lungo grido, la ferita della terra. / L’erba tenera, dove passava la linea gotica”.

Luca si, e ci, immerge nella nostra storia, a cui si abbarbica per costruire le sue, e le nostre, radici, alla ricerca di un io purtroppo non sempre felice e sereno: “non so se le mie strade / rimarcano soltanto trame, / o se condividono un ricordo”. “La memoria, si sa, nasconde / ciò che vuole. E quando arriva / o è un lampo o si traveste, / non porta sempre il sole”. Luca sente il peso sulle sue spalle di chi lo ha preceduto: “Ci sono tutti, una folla di dolcissimi fantasmi / mi indica la scena aperta sul mare, / là in fondo alla strada. / Mi dicono ‘Luca, aspetta, non senti? Luca … possibile? … non ti ricordi?”. Pontiggia annota: “Siamo nel punto di maggiore desolazione, quasi in uno stato di sonnambulismo dell’anima, che patisce l’incursione di voci e di fantasmi, senza opporre resistenza”.

L’ultimo capitolo Luca lo dedica a Philippe Petit, notissimo funambolo francese, che il 6 agosto 1974 camminò su una fune d’acciaio tesa tra i due grattacieli del World Trade Center di New York (le torri gemelle poi distrutte l’11 settembre 2001 da un attacco terroristico) ad un’altezza di 417 metri. Sono versi dedicati alla fatica di essere padre, agli equilibri necessari per aiutare a crescere i figli: “un padre deve saper sopportare / d’essere ucciso – un semplice / atto d’amore – / un padre deve provare / senza il timore di perdere / l’equilibrio.”

L’ultimo testo è una risposta anticipata a molte domande che avremmo voluto porre al poeta Luca Nicoletti, sul senso del suo poetare: “Non chiedermi cos’è una poesia, / non cercare troppo nelle parole / che hanno un passo solenne. / Non c’è senso migliore / di quello che ogni giorno la vita / prova a mostrarti, in silenzio / battendo le palpebre / come un gatto che ti capisce: / una luce molto distante, / la vita dentro una casa / inarrivabile là, dall’altra parte”.

Paolo Zaghini