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Perchè pagare le tasse se lo Stato ci considera comunque evasori?


15 Agosto 2021 / Paolo Zaghini

Giovanni Benaglia: “Colpevole! Fino a prova contraria. Discorso attorno al nostro sistema fiscale e al suo trattarci come incalliti evasori” Bookstones.

Ultimamente, per una serie di episodi con uffici pubblici, nulla di drammatico, mi sono trovato però a chiedermi: ma perché uno deve essere sempre un bravo cittadino? E questa è anche la domanda fondamentale che Giovanni Benaglia ci pone con questa sua opera prima dedicata alle ingarbugliate vicende del pagamento delle tasse (in senso lato).

Riminese, commercialista, esperto di contenzioso fiscale, Benaglia vorrebbe che lo Stato non ci considerasse degli evasori fino a prova contraria, ma cittadini e contribuenti per natura onesti: “per lo Stato italiano noi cittadini siamo una banda di delinquenti, ameno dal punto di vista della fedeltà fiscale. Non che questa scarsa considerazione sia storicamente del tutto sbagliata, ci mancherebbe. Siamo un popolo di evasori congeniti, privi di qualsiasi senso risorgimentale di Nazione, non riusciamo a capire che pagare le tasse è sì un fatto fastidioso ma serve per finanziare la Sanità, l’Istruzione, la Difesa, la Giustizia, tutte cose nelle quali prima o poi ciascuno di noi inciampa e poi ringrazia pure che sono gratuite. C’è da dire che, di contro, lo Stato negli ultimi ottant’anni non ha fatto niente per farci maturare l’idea che il sistema fiscale sia equo e giusto”.

Ed è forse per questo che “in Italia essere un evasore è quasi un onore al merito di cui senz’altro non vergognarsi”.
E allora guardiamo cosa fa lo Stato per combattere l’evasione fiscale. Nel 2019 sono stati effettuati 508.101 controlli. Di questi, 259.133, cioè il 51% del totale, hanno “avuto un valore di maggior imposta ricompreso in una forchetta tra zero e 1.549 euro. Cioè, fondamentalmente niente”. “Il risultato finale è che l’italiano si costruisce una sorte di giustificazione morale nell’evadere le tasse: lo Stato perseguita ingiustamente il cittadino e, di conseguenza, questo si sente giustificato nel cercare tutte le scappatoie per non pagare, che siano lecite o meno”.

Il ragionamento di Benaglia è che forse sarebbe opportuno concentrare lo sforzo dell’apparato statale sulle grandi imprese “perché richiede meno personale, è più efficace in termini di soldi recuperati, si basa molte volte su indagini accurate e solide argomentazioni giuridiche e, di conseguenza, è meno attaccabile sul piano del contenzioso. In ultima istanza, quindi, è più utile a tutti”. E cita, a mò di esempio, la vicenda del gruppo francese Kering (proprietario di grandi marchi del lusso), che nel maggio 2019 ha chiuso un contenzioso con l’Agenzia delle Entrate pagando un miliardo e quattrocento milioni di euro per aver “esterovestito” la propria attività in Italia per pagare meno tasse. Questa somma introitata è servita al Governo per chiudere una manovra aggiuntiva quell’anno di 2 miliardi, evitando così una procedura di infrazione europea.

Perché se è vero, come afferma il Rendiconto Generale dello Stato per l’anno 2019, i crediti tributari che l’Agenzia delle Entrate deve riscuotere al 31 dicembre 2019 sono pari a 954,7 miliardi di euro, se va bene quelli che si potranno incassare saranno, sì e no, 79,6 miliardi di euro. “Un fallimento totale quindi, che alla fine ricade su tutti i contribuenti italiani sotto forma di aumento del debito pubblico”.

Qual è il problema? Al di là delle difficoltà economiche dei singoli soggetti, il vero problema è il quadro giuridico dove i controlli si basano in larga parte sulle cosiddette “presunzioni”. Dice l’art. 2727 del Codice Civile: “Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”.

“Ciò che interessa a noi è il concetto di presunzione semplice, o addirittura semplicissima, perché è su questa che si basa gran parte degli accertamenti emessi da parte dell’Agenzia delle Entrate”. E qui Benaglia si diverte a raccontarci di innumerevoli “presunzioni” errate fatte dal fisco, ma che hanno sconvolto la vita per anni di semplici cittadini.
E poi passa ad esaminare la famigerata “imposta di registro”, “l’imposta a funzionamento presuntivo per eccellenza, quella che negli ultimi anni ha generato un livello di contenzioso di tutto rispetto” (il 6,39% di tutti i ricorsi pervenuti alle commissioni tributarie nel 2019).

Come viene applicata questa imposta? Io cittadino penso di dover pagare un’aliquota sulla base del prezzo di acquisto che ho effettuato. Sbagliato, sbagliatissimo! Come ragiona l’Agenzia delle Entrate: “la base imponibile non è affatto il prezzo di vendita ma, bensì, il valore venale in comune commercio”. Ovvero “il valore di mercato che un immobile o un terreno ha sul mercato, calcolato sulla base del valore medio delle compravendite di beni simili nella zona circostante”. Su questa presunzione il valore del terreno o dell’immobile possono, in realtà quasi sempre, essere raddoppiati dall’Ufficio. E come sanno bene, purtroppo, decine di cittadini, questi hanno ben poche difese di fronte a funzionari ciechi e sordi alle ragioni che vengono loro presentate. Tanto più in questi ultimi anni dove il valore immobiliare è molto ballerino, spesso di gran lunga inferiore a quello medio che si è registrato nei tre anni precedenti. “Se ai dirigenti dell’Agenzia delle Entrate si riconoscono dei premi sulla base delle imposte recuperate questi ultimi si adopereranno il più possibile per farlo, con metodi che produrranno nel contribuente l’idea di non trovarsi davanti a un Fisco propriamente equo”.

Nel 2016 il Ministro Pier Carlo Padoan commissionò all’OCSE e al Fondo Monetario Internazionale una ricerca sul nostro sistema fiscale. Il risultato che ne venne fuori non è certo uno dei più lusinghieri. “Un sistema bizantino, con presenza di numerosi organismi che spesso si sovrappongono fra loro e ai quali si applicano addirittura regole diverse in termini di status giuridico, obiettivi, prestazioni complessive e autonomia”. FMI e OCSE suggerivano alcune azioni da intraprendere, “tutte con la logica che l’evasione si combatte non aumentando i controlli ma facendo aumentare la consapevolezza nel contribuente che l’Amministrazione fiscale agisce in maniera equa”.

In questi ultimi cinque anni si è lavorato in questa direzione? No. Per una semplificazione degli adempimenti che un contribuente deve rispettare (in un anno sono 90)? No. La conclusione di Benaglia è la seguente: “I sogni sono desideri: da una parte vi è l’enunciazione da parte del Ministero delle Finanze di buone intenzioni e di buone prassi da introdurre nel nostro sistema fiscale. Dall’altra vi è, però, la quotidianità che è sempre quella, immutata da anni. In mezzo c’è il rapporto fra cittadino e Fisco che viene implacabilmente sempre più rovinato, nonostante i proclami in senso contrario”.

Benaglia ha prodotto un ottimo pamphlet, che non è una difesa d’ufficio degli evasori, ma bensì una messa sotto accusa del nostro sistema fiscale che tratta spesso le persone oneste come sospetti evasori, in un mondo rovesciato dove è l’accusato a dover dimostrare la propria innocenza.

Paolo Zaghini