Francesco Gabellini, alta poesia nel dialetto di Riccione
14 Novembre 2021 / Paolo Zaghini
Francesco Gabellini: “Nivère” – Raffaelli.
La poesia dialettale di Francesco Gabellini, riccionese, educatore, classe 1962, “esplora l’anima più profonda di una voce che viene da molto lontano, che è voce della terra e del mare e di tutti gli esseri primigeni che vi abitarono fin dal primo giorno”. Così Francesco presenta la propria poesia nella nota introduttiva al volume.
La sua è una poesia alta, colta, scritta in uno splendido dialetto romagnolo. Oggi Francesco lo si può annoverare certamente tra i più importanti poeti, dialettali e non, italiani. E questo nonostante che da una decina d’anni, sino a questa nuova opera, non avesse pubblicato più nulla.
Aveva edito nel 1997 Aqua de’ silénzie (Acqua del silenzio) per l’editore sammarinese “AIEP”; nel 2000 Da un scur a cl’èlt (Da un buio all’altro), per l’editore milanese “La vita felice”; nel 2003 Sluntanès (Allontanarsi) per Pazzini Editore di Villa Verucchio; nel 2008 Caléndre (Calende: nel Dizionario romagnolo (ragionato) di Gianni Quondamatteo i primi dodici giorni di gennaio, dall’osservazione dei quali si ricavava il pronostico dell’andamento stagionale del mese corrispondente) per l’editore riminese Raffaelli; nel 2011 A la mnuda per l’editore Giuliano Ladolfi di Borgo Manero (Novara).
Sue opere sono risultate vincitrici o finaliste in numerosi concorsi letterari nazionali, pubblicate su riviste culturali e inserite in varie antologie. Da diversi anni si occupa anche di teatro, per il quale ha scritto numerosi testi. Con il monologo in dialetto romagnolo L’ultimo sarto è stato finalista nel 2005 alla 48ª edizione del Premio Riccione per il teatro. Negli anni 2010 e 2011 il monologo Detector venne portato in scena dall’attore Ivano Marescotti in vari teatri d’Italia, Nel 2016 ha pubblicato un libro che raccoglie cinque monologhi, sempre in dialetto romagnolo, dal titolo Zimmer frei per l’editore Il Vicolo di Cesena.
Vorrei lasciare la parola a chi più di me ne sa, ovvero a Edoardo Zuccato, poeta, docente di lingua e letteratura inglese presso la Libera università di lingue e comunicazione di Milano (IULM), dove ha diretto l’Istituto di Arti, Culture e Letterature Comparate, che nella presentazione del volume di Francesco A la mnuda ha scritto: “Occorre subito rilevare che Gabellini è nato come poeta di liriche brevi e rarefatte, secondo uno sperimentato modello novecentesco che in Romagna ha trovato una declinazione originale in poeti come Pedretti e Baldassari. Questa vena è ben presente anche in A la mnuda, ma non più in modo esclusivo come nelle raccolte precedenti”. Zuccato indica nel poeta lirico di Cervia Tolmino Baldassari (1927-2010) un punto di riferimento fondamentale per Francesco.
Ma Miro Gori in “La pianta della poesia romagnola continua a buttare bene” in il Corriere di Romagna del 27 luglio 2000 la pensa un po’ diversamente: “Egli è l’unico poeta dialettale romagnolo della generazione degli anni sessanta. Insomma è, per così dire, un solitario. E proprio per questo proverò ad accostarlo a qualcuno. Stabilito che l’insegnamento dei grandi Guerra e in seguito Baldini s’è propagato in mille rivoli, oserei affermare che il dialetto del nostro autore è apparentabile a quello di Gianni Fucci, per quel senso diffuso della preziosità, della delicatezza e fragilità delle parole e delle frasi della lingua romagnola, nonché per la propensione di tipo simbolista. Nello stesso tempo Gabellini richiama un neodialettale della seconda generazione, Giovanni Nadiani, quando fa collidere il dialetto-lingua di una Romagna ricca d’identità che non c’è più con quella specie di periferia del nulla che s’avvia a diventare la Romagna attuale”.
“Nivère”: “Il titolo si riferisce ad un particolare tipo di nube, plumbea e carica di neve, bella e allo stesso tempo minacciosa” dice Francesco. “L’òuvre” (Il grembo), “La viola” (Il viale), “Al crèpe te mur” (Le crepe nel muro), “Un bicìr ‘d nèbia” (Un bicchiere di nebbia) sono le sezioni del libro in cui la poesia di Gabellini si sviluppa, narrando la vita degli uomini, dalla nascita fino al ricordo – fragile come il vetro – che si confonde nella nebbia della memoria.
Testi non facili, da cui però emerge con chiarezza una tristezza di fondo: Par l’òc i culùr piò bel / i è tl’agònia dal fòie (I colori più belli per l’occhio/ sono nell’agonia delle foglie), ‘sta dulcèza antìga (questa dolcezza antica), E nòun a gèm ch’u i è una disperaziòun tl’aria (E noi ci diciamo che c’è una disperazione nell’aria).
Campiunèrie. Par l’òc i culùr piò bèel / i è tl’agònia dal fòie / tl’utme respìr ad nuvèmbre. / Vèce parole fate te gir d’na vita / pensier ch’i t’impinès e’ pèr / i t fa dòlcia la sera, / e po’ i t’amàza.
(Campionario. I colori più belli per l’occhio / sono nel’agonia delle foglie / nell’ultimo respiro di novembre. / Vecchie parole maturate nell’arco di una vita / pensieri che riempiono il petto / ti rendono dolce la sera, / e poi ti uccidono.)
C’è tanto mare nelle liriche di Francesco, ma anche vicinanza alla natura, visione di cielo e nuvole. La stessa nebbia l’era un’urecia ad vidre / ch’la sentiva e’ respir de mônd, tótt i silènzie de mèr (Era un orecchio di vetro / che ascoltava il respiro del mondo, / tutti i silenzi del mare). Qualcosa da scrutare attentamente, non sapendo al suo interno quali sorprese possa riservarci.
Ma è nella brevità, carica di ironia, della poesia La pèsa che ci identifichiamo e ci uniamo con Francesco: Basta, nu stè a da santì ancora / ma quèi ch’i vò trì sò di élt mur. / Al robe al cambia. / Propria stamattina ò vèst / un chèn e un gat ch’i giughìva insèn (La pace. Basta, non ascoltate ancora / chi vuole innalzar nuovi muri. / Le cose cambiano. / Proprio questa mattina ho visto / un cane e un gatto che giocavano insieme.)
Paolo Zaghini