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Nella tasche di Lidiana una poesia sempre più ricca


29 Maggio 2022 / Paolo Zaghini

Lidiana Fabbri: “Bascòzi” – Raffaelli.

Conosco Lidiana ormai da oltre quindici anni. L’ho vista, con la sua timidezza caparbia, crescere poeticamente di libro in libro: e ormai sono, con questo, sei. Il primo nel 2007, “S’un fil ad vent”, poi “Garneli” nel 2009, “Artaj” nel 2012, “Mulìghi” nel 2016, “Tra lóm e scur. Racunt e pensir in dialèt rimnés” nel 2019, ed ora oggi “Bascòzi”.

Quante volte Lidiana è arrivata da me in Biblioteca a Coriano con la sua cartellina di nuove poesie dattiloscritte per farmele vedere e chiedere cosa ne pensassi. E naturalmente la facevo felice se esprimevo un giudizio positivo, oppure si annuvolava se invece il commento era critico. Ma non per questo ha mai mollato. Con perseveranza ha studiato dai testi dei maestri della lingua dialettale, ha ricercato la forma migliore della scrittura in dialetto, si è messa alla prova partecipando a numerosi concorsi (vincendone diversi), si è inserita con capacità nel non numeroso novero delle autrici dialettali romagnole. Oggi Lidiana è un’autrice conosciuta ed apprezzata, e di questo sono molto contento perché se lo merita.

Dentro le sue cartelline da lavoro rimanevano sempre poesie che non entravano nei libri che andava editando. Le “bascòzi” (le tasche, o forse ancor meglio le saccocce) dei cappotti, o forse ancor meglio quelle dei pastrani dei contadini romagnoli le immaginiamo, come del resto erano in realtà, grandi, capienti. E così sono le cartelline di Lidiana: da qui sono emerse queste 80 poesie scritte fra il 2014 e la metà del 2020. Non sono più solo i piccoli sonetti iniziali dei primi libri. Oggi la scrittura di Lidiana si è arricchita, la sua capacità di espressione è notevolmente aumentata, le sue poesie affrontano temi intimi, ma non solo. Il suo sguardo è ampio, e il mondo e la storia vi sono presenti (“Bineri vintun”, “Notre Dame”, “Che’ pèz ad chérta”, “Ȯ fninì da lavurè”).

Il ricordo di Guido Lucchini, colui che Lidiana riconosce come il suo primo maestro, è tenerissimo riandando alla loro ultima telefonata: “Ȯ fàt na’ telefunèda / me’ mi’ mèstri de’ dialet / u’ m’à arspòst / ma un m’à cnusù” (…) “A’ i ò det “Grazie a’ so stè fortunèda / ad uncuntret” (Ho telefonato / al mio maestro del dialetto / mi ha risposto / ma non mi ha riconosciuto (…) Gli ho detto “grazie, sono stata fortunata / a incontrarti”).

E qui e là compaiono testi scritti nel pieno della prima pandemia di covid del marzo 2020. La parola covid non appare comunque mai, non ce n’è bisogno: la poetessa sa raccontare quei terribili giorni attraverso immagini e sensazioni che solo la poesia può dare.

La sveglia
Un gnè bsògn / da puntè la sveglia / per stè só dmatèina prèst. // La butéga la è ciusa / se u i è bsògn de’ dutór / basta telefunè. // La zità la è svuida / un pà-sa / gnènca na’ bicicleta. // Un gnè bsògn / dla sveglia // an avém nisun apuntamènt / in zità.
(La sveglia. Non c’è bisogno / di puntare la sveglia / per alzarsi presto domattina. // Il negozio è chiuso / se c’è bisogno del dottore / basta telefonargli. // La città è vuota / non passa / nemmeno una bicicletta. // Non c’è bisogno / della sveglia // non abbiamo nessun appuntamento / in città.)

La fantasia straordinaria di Federico Fellini, trasportata sul grande schermo, induce Lidiana, in occasione del centenario della nascita del regista riminese (1920-2020), a dedicargli questo piccolo e prezioso omaggio:

La nèva
La nèva l’a s’è incajé / sl’andrèda de camp-sènt. // T’un òngia d’aqua / du cun gnè burasca / du che e’ zil us spècia. // La su’ nèva / la à mélla ócc / ut per dà santì al vósi // l’è e’ méstri che cmànda. // Un è daparsè Federico.
(La nave. La nave si è incagliata / all’ingresso del cimitero. / In un’aiuola d’acqua, / dove non c’è burrasca / dove il cielo si specchia. // La sua nave / ha mille occhi / ti pare di udire voci // è il maestro che dirige. // Non è da solo Federico.)

Ma sono le poesie dedicate ai temi più intimi, dove Lidiana afferma, a partire dalle piccole cose familiari, la consapevolezza dell’essere donna, madre, amante, moglie. Con delicatezza, senza urlare, ma ricordando continuamente che il vivere in due è difficile ma può essere bello nel rispetto reciproco.

Pacinza
U i vò pacinza / u i vò e’ tèmp // l’è cumè filè / se’ tlèr // un fil ad lèna / un drì cl’èlt. // U i vò pacinza / u i vò e’ tèmp / per ardus / cla cuèrta granda // cla tnìrà chéld / ma’ do cris-cén / tótta la vita.
(Pazienza. Ci vuole pazienza / ci vuole tempo // è come filare / con il telaio // un filo di lana / uno dopo l’altro. // Ci vuole pazienza / ci vuole tempo // per mettere insieme / quella coperta grande // che terrà caldo /a due persone // tutta la vita.)

Il libro si apre con una poesia del marzo 2020, ma credo che sia quanto mai attuale oggi dopo l’invasione dei russi dell’Ucraina: lo sgomento, in quel momento per il covid, ed oggi per una guerra insensata e crudele nel cuore dell’Europa.

Adès
A’ so’ inciudèda. // A’ vègh fàzi spaisèdi / l’in à voja da’ zcor. // T’la mi’ tèsta / i pà-sa i pensir. / A’ vréa èss bòna / da’ scrìv paroli / ad cumpasiòn / ma’ e’ còr / un s’àrisga / e la mèna / l’an si mòv.
(Adesso. Sono attonita. // Vedo facce spaesate / non hanno voglia di parlare. // Nella mia mente / nascono pensieri. // Vorrei essere capace / di scrivere parole / di compassione // ma il cuore / non si arrischia / e la mano / non si muove.)

Paolo Zaghini