Il Ponte è vivo, riprendiamoci Rimini senza veli polverosi
5 Luglio 2017 / Samuele Zerbini
“Se vuoi farti dei nemici prova a cambiare qualcosa”.
I riminesi sono gente bellissima. Io, che lo sono, li adoro. Siamo fatti così, un nugolo di contraddizioni, geniali e antichi, moderni, attaccati alle radici ma quasi tutti – in parte o del tutto – immigrati di prima seconda o terza generazione.
Qualcuno venuto giù con le piene del Marecchia: io con quelli del Montefeltro, figlio di una cremonese e di un carabiniere di Monte Cerignone.
Per questo probabilmente ci sentiamo attaccati ad ogni sasso della nostra città.
Città praticamente morta e risorta dopo la guerra, distrutta e ricostruita. Quello che ci rimane, l’abbiamo demolito con le nostre mani: nascondendo, cancellandolo come il Kursaal, dimenticandocelo nei lavori della ricostruzione: dove c’è Palazzo Fabbri e dove è nato il Palazzetto dello Sport abbiamo probabilmente distrutto le radici della nostra città non più tardi entro gli anni ’70.
Anche noi però siamo vittime del peccato originale italiano: la sacralizzazione del territorio. Forse un complesso di inferiorità, forse una cattiva comprensione della realtà delle cose.
Talvolta viviamo tra i relitti di una civiltà magnifica come quella romana quasi come estranei. Il Ponte di Tiberio, l’Arcod’Augusto, manufatti di una civiltà aliena e incomprensibile, strumenti magnifici (e lo sono) e quindi intoccabili: come è giusto che sia. Questa visione la trasciniamo per estensione a qualsiasi cosa superi la nostra personale memoria: con la stessa venerazione che possono avere dei selvaggi davanti ad una nave, o ad un condominio.
Non siamo in grado di decrittarne i significati, la testa di toro che fa bella mostra di sè sull’Arco o i numeri e le lettere sul Ponte sono per noi talvolta decorazioni esotiche e irripetibili, da venerare e non da leggere.
Così quando qualcuno prova (osa?) intervenire su qualcosa che abbiamo sempre visto tale, la prima reazione è quella di gridare al sacrilegio.
E invece, l’intervento sull’alveo del Ponte di Tiberio è un intervento assolutamente valido e contemporaneo a chi l’ha disegnato.
Il Ponte era un ponte, aveva un valore d’uso fondamentale (e ce l’ha tutt’ora) e rimane una testimonianza magnifica di quel passato. Per questo è giusto, anzi, è un’ottima cosa che il Comune di Rimini (col quale non sono mai tenero) finalmente ci permetta di vedere, vivere, passeggiare, conoscere il nostro ponte e quel tratto del porto da angolature fino ad oggi impossibili. Permetta a chiunque di poterlo vedere dal fiume, da dove le lavandaie e le barche nella quotidianità di un’antichità recente andavano. Ci permetta di passare lungo il muraglione, e avvicinarsi al passato che abbiamo deciso di sentire nostro, per vedere il Ponte di Tiberio con nuovi occhi.
Ci sono oggetti antichi che hanno un valore intrinseco, che ci raccontano l’arte e le parole del passato: fare i baffi alla Gioconda è un gioco di rimandi che può essere fatto solo su una riproduzione, per evitare che venga rovinato un capolavoro del passato. Dipingere il Ponte di Tiberio di blu potrebbe essere una performance per una notte (o di rosa, con le luci), ma giustamente sarebbe inaccettabile se lo rovinasse in via permanente. Ma il muro di fianco, signori, è solo un muro. Ha un valore d’uso pari a quello di un muro ricostruito e integrato cento volte, l’ultima pochi anni fa: in quanto antico è giusto che si agisca con delicatezza. Infatti l’intervento viene realizzato in modo tale da ancorarsi ai recenti lavori di consolidamento in cemento armato, e i mattoni che vengono tolti verranno rimessi al loro posto.
Per restaurare bisogna smontare e rimontare: qui abbiamo un muro che viene smontato e rimontato, al quale viene applicata una passerella.
I risultato sarà che noi riminesi potremo sentire il nostro ponte ancora più nostro, viverlo e goderlo da angolature oggi impossibili, raccontarlo a chi viene da noi in visita o in vacanza con l’orgoglio di chi ha qualcosa di inestimabile e che viene riportato in vita. Ci sarà una terrazza sul Ponte, un passaggio galleggiante per passare da parte a parte, una passeggiata sull’altro muro. Dove oggi non c’è niente.
Si tratta di quegli interventi che troviamo bellissimi quando li vediamo in altri Paesi, perché ci permettono di vivere meglio le bellezze altrui. Ma quando proviamo a farli a casa nostra riparte la sindrome dell’intoccabilità.
Sono stati fatti due incontri pubblici per discutere di questi interventi: ne servivano tre? Forse sì, ma alla fine siamo il paese dei cento incontri conoscitivi, e manca sempre il centounesimo.
Io credo che dobbiamo scrollarci di dosso questa sacralizzazione estenuante del territorio, dove non si può toccare mai niente, ma tutti si lamentano perché non si può fare mai niente.
Il giusto mezzo è proprio questo: tornare ad usare le nostre cose per quelle che sono, difendere ciò che non si può toccare ma in maniera attiva. Rendendolo valorizzabile, visibile, comprensibile. Vivo.
Per questo è un bene che si metta mano a quella parte di città: oggi abbandonata la notte. Dobbiamo talvolta scegliere: o riportiamo le persone, o ci mettiamo il filo spinato. Cambiare senza distruggere ma rendendo tutto più visitabile, più fruibile, più piacevole. Vedere le cose da un’altra prospettiva, metterci in piedi sul banco e vedere che il mondo, visto dal mezzo del alveo o sospesi a fianco del muro ha un altro colore. Ho massima stima di coloro i quali si oppongono ai cambiamenti: ma per favore, basta bacchettare tutti sulle mani.
Se vogliamo ancora credere in Rimini CIttà D’Arte – e dobbiamo! – bisogna che ci scrolliamo di dosso i mille freni che da soli ci diamo. L’arte è bellezza, l’arte è vita ed è viva. L’arte è cambiare il modo con cui guardiamo le cose e chiederci “Perchè no”. E’guardare la collezione di farfalle inchiodate con uno spillo, e vederle, d’un tratto, scrollarsi il chiodo e finalmente volare.
Il Ponte è qualcosa di vivo, che a breve potremo vedere anche dal fiume o da un punto del muro dove ogni riminese ha pensato, un giorno, di potersi arrampicare.
Riprendiamoci Rimini, la città che abbiamo deciso di amare, togliamo i teli polverosi che qualcuno vuole metterci sopra. Rimini non è stata amata perché è diventata grande, ma è diventata grande perché i suoi cittadini l’han saputa amare.
Samuele Zerbini