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Dai Borgia alla Romagna di oggi: il veleno come mediatore familiare


24 Febbraio 2019 / Lia Celi

«Vi metto la stricnina nella minestra!»: così minacciava i congiunti la matriarca di Amarcord. Senza sapere di evocare uno dei più antichi e tradizionali mediatori familiari nella storia sociale italiana: il veleno.

Per secoli e secoli molte vertenze fra le mura domestiche si sono risolte così, soprattutto per mano femminile, e visto che tanti maschi in famiglia non vogliono archiviare la tradizione dell’uxoricidio a base di percosse, pistolettate e incendi dolosi, forse qualcuno, anzi, qualcuna, si domanda se non è il caso di rispolverare anche l’altra metà del cielo (nero) del coniugicidio, l’avvelenamento.

E si risponde di sì, come la signora di Imola che durante le ultime feste natalizie ha regalato al marito in via di separazione un’appetitosa crostata corretta alla belladonna, un’erba potenzialmente tossica, e in dose letale.

Sarà che le marmellate non sono più dolci come una volta, sarà che a Natale ci sono già panettone e pandoro, il marito, dopo il primo boccone, ha lasciato perdere, ma quel che ha ingerito è bastato a mandarlo all’ospedale, dove se l’è cavata per miracolo.

La belladonna contiene un’alcaloide, l’atropina (dal nome della Parca che mozzava il filo delle vite mortali), che “fa diventare gli uomini pazzi furiosi e a volte li addormenta fino alla morte”, dicono gli antichi manuali di erboristeria. Sembra una cartolina dai tempi dei Borgia, e invece è cronaca di oggi; e il malcapitato imolese deve la vita alla passione della sua signora per le cure naturali, perché se si fosse servita del classico topicida forse non se la sarebbe cavata.

La natura, peraltro, offre una vasta gamma di erbe velenose, a cominciare dalla leggendaria cicuta, passando per lo stramonio, il colchico e l’aconito e perfino per l’innocente bucaneve. Ancora oggi in tutto il mondo c’è chi ci rimette la pelle per incontri troppo ravvicinati con specie tossiche durante innocui lavori di giardinaggio: solo in Italia si contano mille ricoveri l’anno e due o tre morti.

Certe erbe come la cicuta intossicano anche “di seconda mano”, per così dire: uccelli come le allodole in primavera ne fanno vere e proprie scorpacciate, e i cacciatori che le mangiano rischiano di fare la fine di Socrate, senza nemmeno la soddisfazione di aver impartito meravigliose lezioni di filosofia.

E non parliamo dei funghi, i veri killer delle famiglie – perché chi li raccoglie poi, tutto fiero, ci fa la super-risottata per moglie e figli (40mila avvelenamenti e dieci morti l’anno). Un fungo, del resto, pare fosse il veleno preferito dei Borgia: il Cortinarius orellanus, simile al mangereccio chiodino. E si capisce perché: i danni dell’intossicazione da Cortinarius si palesano quindici giorni dopo l’ingestione, quando è troppo tardi e la tossina ha già distrutto reni e intestino.

Nel Rinascimento un potente in quindici giorni aveva subito almeno tre tentativi di avvelenamento, quindi era difficile risalire al colpevole… E’ un peccato che dell’epoca più gloriosa per la cultura e per l’arte italiana riscopriamo proprio il suo lato meno glorioso, ma guardiamo l’aspetto positivo: se la tendenza prende piede, potrebbe contribuire a risolvere il problema della disoccupazione giovanile molto più del reddito di cittadinanza. A parte i posti di lavoro liberati dai mariti che finiscono le crostate, dopo i navigator ci saranno quelli legati a una nuova professionalità ad altissimo turnover: l’assaggiatore.