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I De Michelis non ci sono più ma l’Italia non è migliorata per questo


12 Maggio 2019 / Lia Celi

Nostalgia struggente di Gianni De Michelis: un sentimento che non mi assale solo ora, all’indomani della sua morte, ma che mi sono sorpresa a provare sempre più spesso, negli ultimi anni. E non è solo rimpianto per la mia giovinezza, coincisa con il periodo di massima fama e splendore del più mondano dei dirigenti social-craxisti (e uno dei più intelligenti), ma proprio per quel lifestyle così antipauperistico, fatto di party, discoteche, champagne a fiumi e forse non solo quello, che ha avuto in Rimini e Riccione due fra i suoi scenari più caldi.

Erano i famosi ruggenti anni Ottanta presi in giro dal Drive in di Antonio Ricci (c’era proprio un De Michelis imitato da Gianfranco D’Angelo con accento veneziano e attorniato da tre procaci girls di nome Murano, Burano e Torcello) e messi alla berlina da Sabina Guzzanti a Tunnel, dove interpretava il personaggio di Grazia De Michelis, la cantante ultra-raccomandata.

Anni di corruzione, in cui cresceva a dismisura l’immane debito pubblico che ci opprime oggi, ma anche di vitalità disordinata e, tutto sommato, di ottimismo, malgrado le tragedie che ancora si consumavano nel nostro paese: terrorismo, stragi di mafia, efferata cronaca nera (è l’epoca del mostro di Firenze e dei delitti di Roberto Succo).

Al confronto ciò che ci spaventa oggi è robetta – e infatti tutti gli indici confermano che il crimine in Italia è crollato -, eppure viviamo da assediati, tremebondi, sconfitti, tormentati dal risentimento e dall’invidia per chi ha qualcosa più di noi, anche poco.

Rancore per chi è più ricco, più bello, più sano, per chi riesce a impadronirsi di un pezzetto in più di di ciò che oggi conta veramente, l’attenzione e l’approvazione del prossimo. In un Paese ancora abituato al grigiore e al basso profilo democristiano, il palese amore per la bella vita di Gianni De Michelis e dei tanti esponenti del Psi faceva notizia e scandalo, specie quando è apparso chiaro come veniva finanziato.

Silvio Berlusconi il lusso e le cene eleganti le pagava con soldi suoi (ne aveva i mezzi, peraltro) eppure non l’ha passata liscia, almeno davanti all’opinione pubblica. E così adesso, due o tre ribaltoni dopo, ci ritroviamo con politici che sono o si fingono francescani, si fanno i selfie col paninazzo dell’autogrill o in location modeste da gita parrocchiale per documentare la loro frugalità e giustificano l’occasionale bicchiere di qualità o il pranzo al ristorante stellato come riconoscimento delle eccellenze gastronomiche italiane. Scorte e auto blu attirano l’odio popolare e una ministra con un look che si discosti da quello di «arcigna prof di matematica» è additata al pubblico ludibrio.

Con tutto questo, la qualità della politica italiana non è migliorata (anzi), la corruzione non è scomparsa (anzi) e il debito pubblico continua a lievitare a livelli mostruosi. Nessuno dei sedicenti morigerati leader di oggi ha quel tanto di cultura, di visione e di conoscenza del mondo che rendeva De Michelis, almeno per qualche ora alla settimana, un politico di prim’ordine, europeista e lungimirante, oltre che un viveur con il vizio della bustarella.

Di Salvini, Di Maio, Zingaretti o Meloni non si dirà mai che fanno le notti bianche in discoteca o che non si fanno abbastanza spesso lo shampoo, ma questo non sta rendendo l’Italia né più ricca, né più rispettata, né migliore.

Lia Celi