HomeLia CeliMa nella piada canadese ci va il grasso di grizzly?


Ma nella piada canadese ci va il grasso di grizzly?


9 Giugno 2019 / Lia Celi

Come sarà stata «La piadina» canadese? A due spioventi, come la tenda? A forma di foglia d’acero? Rossa come le giubbe rosse del Saskatchewan?

A me resta un po’ di curiosità per questa versione transoceanica della nostra specialità, che forse sopravviverà, ma non potrà chiamarsi piadina, visto che il Consorzio di Promozione e Tutela della piadina IGP è riuscito a far bloccare il marchio presso l’Ufficio per la Proprietà industriale canadese.

Sarebbe stato l’ennesimo caso di sfruttamento dell’«Italian sounding», dopo il Parmesano, il Prisecco e la Pasta Schuta: denominazioni finto-tricolori per prodotti realizzati con ingredienti magari pure sani e genuini, ma non originali, che se li leggesse Oscar Farinetti gli verrebbe un coccolone.

Ma all’estero, specie in Nordamerica, non sono come noi. Non vanno tanto per il sottile quando si tratta di cibo. Sono cresciuti con sapori artificiali, industriali, carichi di zucchero e di aromi, tutto il cibo che hanno mangiato in vita loro è stato acquistato pronto o semipronto in un supermercato, oppure recapitato da un rider, o consegnato attraverso la finestrella di un drive-thru. Nessuno perderebbe una mezz’ora a discutere con il salumiere o il formaggiaio sulla stagionatura del prosciutto o sul tipo di caglio impiegato per il pecorino, come succede da noi.

Figuriamoci se si farebbero dei problemi a mangiare una piadina riveduta e scorretta, impastata con il grasso di grizzly al posto dello strutto o dell’olio d’oliva e riscaldabile nel forno a microonde anziché su un testo. Già è molto se riescono a distinguerla da una tortilla, da una pita, da un naan, o da qualunque declinazione planetaria della focaccia non lievitata che accompagna l’umanità fin dal Neolitico.

Ma dietro l’azione promossa dal nostro Consorzio c’era un altro timore: se l’azienda canadese fosse riuscita a far registrare il marchio «La piadina», la piadina IGP, già commercializzata nel paese di Justin Trudeau, avrebbe dovuto cambiare nome, e sarebbe stato un bel guaio.

Anche se nemmeno in Romagna la piadina si chiama dappertutto «piadina»: qui a Rimini non usiamo il diminutivo, forse perché ci piace bella grande, a Santarcangelo è «pida», a Riccione «pieda» come a Rimini, a Cesenatico «piè».

Come l’essere aristotelico, la piada è una ma si dice in molti modi. Ma si è appena conclusa la guerra delle due piade (romagnola e romagnola alla riminese), non è proprio il caso di scatenarne un’altra per decidere con quale denominazione venderla in Canada.

L’importante è che non succeda come con la pizza negli Stati Uniti, dov’è considerata ormai un piatto locale. L’ingrediente che dà alla piadina il suo inconfondibile sapore è proprio la sua romagnolità, il retrogusto di Pascoli, Casadei, Moretti e delle cucine di innumerevoli mamme e nonne. Che ti fa sentire a casa anche se la mangi sotto una tenda canadese.

Lia Celi