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Ma quanto stavamo bene quando il cioccolato ci faceva male


27 Ottobre 2019 / Lia Celi

Sono così vecchia che quando ero piccola io il cioccolato faceva male. Anzi, forse era la cosa che a noi bambini, secondo le mamme e i dottori, faceva più male in assoluto. Anche più delle caramelle, che avevano l’attenuante di contenere qualche atomo di frutta. Era accusato di provocare una vasta gamma di disturbi, fra cui bruciori, eczemi, allergie, diarrea, stitichezza e mal di pancia assortiti.

C’era un solo modo per redimerlo: mescolarlo con il latte, l’alimento salutare per eccellenza, tanto bianco e innocente quanto il cioccolato è scuro e poco raccomandabile. Quindi vai di cioccolato al latte, meglio ancora se cioccolato bianco, oppure le barrette “più latte meno cacao”, cioè un sottile rivestimento marroncino intorno a un ripieno biancastro. Come se il problema del cacao fosse soprattutto la nuance di colore, come fra gli schiavi afroamericani del vecchio Sud, che più erano chiari (quindi mescolati con i bianchi) più valevano sul mercato.

Il cioccolato fondente, duro, amaro, era un gusto adulto, appena un po’ meno peccaminoso dell’alcool. Sembra incredibile a pensarci adesso che il «cibo degli dei» (così lo chiamavano gli aztechi) è considerato da un lato una specie di elisir di lunga vita, quasi un integratore alimentare, dall’altro un antidepressivo miracoloso, un rifugio commestibile, il grande consolatore delle paturnie femminili.

Non è più una chicca da bambini (che lo assumono in altre forme più blande e meno concentrate, come la Nutella o le gocce di cioccolato nei biscotti) ma un alimento da grandi, da degustare con gli occhi socchiusi e l’espressione seria, come si fa con i vini, sforzandosi di afferrare retrogusti fruttati, sentori speziati, note di testa e note di coda.

Ovviamente, per non fare la figura dei cioccolatai (in senso figurato e negativo) bisogna sfoggiare papille super-raffinate, in grado di distinguere il cacao trinitario da quello criollo, e orecchie così fini da riconoscere la qualità di una tavoletta dal rumore che fa quando la si spezza.

E frequentare con religiosa devozione concili come Eurochocolate, dove si discute sulla liceità di certi ripieni per le praline e il gianduiotto è in odore di eresia. Per carità, è tutto molto bello, soprattutto quando la cioccomania produce manifestazioni goduriose come Cioccorimini, perfetta per festeggiare i primi freddi. Ma sarebbe bello lasciare al cioccolato anche un po’ di ingenuità infantile, quella della mini-tavoletta nel panino della merenda a scuola o dell’ovetto senza pretese che la maestra dava a chi faceva il bravo.

Magari non era di qualità sopraffina, non conteneva sale di Cervia o fave di cacao, e se lo tenevi in tasca per più di un quarto d’ora si scioglieva, ma stimolava la produzione di endorfine come nemmeno i più costosi cru delle choco-boutiques.

Lia Celi