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Rimini, cercasi vitellone settantenne che non teme il test del dna


29 Dicembre 2019 / Lia Celi

Signori riminesi over-70 con un passato da birri da spiaggia, fatevi avanti. Chi di voi nell’agosto del ’68 ha vissuto una notte di passione con una giovane turista francese?

Bè, così la domanda è un po’ vaga. Sono passati più di cinquant’anni, agosto ha 31 giorni e i vitelloni non chiedevano i documenti: se una ragazza parlava francese era francese, e invece magari proveniva dal Belgio vallone o da un cantone svizzero francofono.

Magari lui non sapeva il nome e nemmeno il paese, come dice la canzone di Dalla. O forse il nome sì, Nadine, che più francese non si può. E, come nella canzone, dalla breve storia ci scappò un dono d’amore che oggi è un aitante cinquantenne, David, al quale la madre, in punto di morte, ha rivelato le sue origini riminesi.

David Mossé fa il direttore di teatro a Marsiglia, un lavoro sicuro e ben retribuito, almeno in Francia. Quindi, potenziali padri, state tranquilli, il frutto del peccato non è venuto a battere cassa, ma solo a cercare le proprie radici: aver preso metà del proprio Dna dalla città di Fellini è un blasone inestimabile per chi lavora nello spettacolo.

Se qualcuno di voi ha vissuto estati bollenti alla fine degli anni Sessanta e poi magari, per un destino sfortunato o per scelte di vita, è rimasto senza prole, potrebbe anche farsi avanti, e rivendicare un figlio adulto e ben sistemato di cui andar fieri, senza contare l’opportunità di fare le vacanze gratis in Costa Azzurra.

Ma le millantate paternità hanno vita breve, oggi che la genetica può determinare con esattezza scientifica chi siamo veramente e dove veniamo. Basterebbe un semplice test per smascherare i padri abusivi. A quanto pare, David ha già provveduto a una parziale verifica del racconto di sua madre rivolgendosi a una di quelle aziende che con qualche goccia di saliva (la tua, non la loro) riescono a rintracciare le tue origini etniche – e quelle di David erano in effetti più cis- che transalpine.

E’ un tipo di test che va sempre più di moda anche tra i figli di genitori accertati ed è diffusissimo negli Stati Uniti, melting pot di tutte le etnie terrestri e forse anche di qualcuna extraterrestre. Ho amici italianissimi che l’hanno fatto, scoprendo nel proprio Dna piccole ma significative quote di sangue scandinavo, africano ed ebraico sefardita, testimonianza delle mille migrazioni che hanno percorso la penisola nel corso dei millenni.

Mi viene da pensare che se tutti noi sapessimo quanti popoli ci portiamo dentro saremmo meno esposti a certe derive razziste o razzistoidi: dire “prima gli italiani”, geneticamente parlando, significa dire “prima gli esseri umani”, perché siamo un impasto di genti venute da ogni dove, per scelta o per obbligo, invasori, prigionieri di guerra, domestici o schiavi di questo o quel signore, migranti economici.

Bisognerebbe fare come con l’etilometro: se un italiano viene fermato nell’atto di flagrante razzismo, lo si sottopone d’ufficio al test della saliva, così si rende conto di essere imparentato con molti dei gruppi etnici contro i quali straparla.

Magari non cambierà idea, ma d’ora in poi per coerenza dovrà insultare anche la propria immagine allo specchio e i propri familiari. Per David Mossé, invece, il test stato l’inizio dell’avventura che l’ha portato dove è stato concepito, e che speriamo abbia un lieto fine. Avanti, ex vitelloni, fate uno sforzo di memoria. Le vostre mogli vi perdoneranno quella vecchia scappatella, se promettete di portare in Costa Azzurra anche loro.

Lia Celi