Fragheto, villaggio della zona di Kiev. Bucha, borgata della Valmarecchia
9 Aprile 2022 / Lia Celi
Fragheto, villaggio della zona di Kiev. Bucha, borgata della Valmarecchia. Est e Ovest, storia e presente si confondono nel sangue di vittime innocenti, ora come allora: anziani, donne, bambini. Chissà se a Fragheto, che il 7 aprile del 1944 fu teatro di un eccidio perpetrato dalle truppe nazi-fasciste, le scioccanti immagini dei massacri in Ucraina sembrano attualità o portali temporali che li portano al tempo dei loro nonni. Perché cambiano le divise, cambia la lingua, ma la procedura è sempre la stessa: furia sanguinaria, saccheggio, incendio. E impunità, o semi impunità, per i carnefici.
I collaboratori italiani della strage vennero amnistiati, il procedimento contro i militari tedeschi rimase incagliato fino al 2006 e si trascinò fino al 2013; si concluse con l’assoluzione degli unici due imputati ancora viventi, mentre sul terzo non venne emesso il verdetto perché era morto durante il processo.
La vera differenza, forse, sarà che il processo contro i boia di Fragheto fu ritardato dal famigerato “armadio della vergogna”, l’archivio delle stragi naziste che si volevano insabbiare per opportunità politica, che fu chiuso nel 1960 e venne riaperto solo nel 1994, mentre per i massacri russi in Ucraina qualcuno ha voluto intorbidare la verità al primo diffondersi delle notizie.
Bucha, Irpin, Mariupol, Vorodianka sarebbero solo dei set cinematografici, e i morti straziati comparse neanche tanto professionali. E a sostenerlo o a insinuarlo non sono solo, per ovvi motivi, russi, filorussi e italo-putiniani di complemento. Lo fa anche chi vuole sfoggiare obiettività, avvedutezza e sangue freddo davanti a un’informazione che, effettivamente, mira più alla pancia che alla testa, e a tiggì che sentono il bisogno di accompagnare con musiche patetiche immagini di già indicibile orrore, come se lo spettatore avesse bisogno di uno stimolo in più per commuoversi davanti al cadavere di un bambino fucilato.
Le vittime di Fragheto, come quelle di Marzabotto, di S. Anna di Stazzema, delle Ardeatine e delle altre stragi dimenticate, non hanno avuto vera giustizia, ma nessuno le ha mai chiamate attori o comparse stipendiate. Oggi, forse, anche a loro toccherebbe il doppio vilipendio, materiale e morale, subito dai morti di Bucha. Nel 2022 massacri e devastazioni possono essere documentate e dimostrate sulla terra e dal cielo, grazie ai satelliti. Eppure la parola magica «fake news» può mettere in dubbio qualunque prova e ridurre la testimonianza più circostanziata a falso confezionato ad arte.
Anzi, a gridare alla bufala con più convinzione sono proprio quelli che negli ultimi anni hanno più usato le fake news come strumento di politica estera, i russi. Ma non è necessario parteggiare per i carnefici o atteggiarsi a smaliziati esperti di media per sostenere la tesi della contraffazione a oltranza. Per essere negazionisti basta il rifiuto di accettare una realtà inaccettabile: sotto la pelle liscia e curata dell’Europa moderna, evoluta, civile e tecnologica, pulsa ancora l’antica barbarie che ci ha portato per secoli ad ammazzarci fra popoli vicini.
Lia Celi
(Nell’immagine in apertura: gli Otto Martiri fucilati a Ponte Carattoni nell’aprile 1944)