Ho l’impressione che fino a giovedì scorso non pochi riminesi credessero che un’adunata nazionale di alpini fosse qualcosa di simile al Meeting di Cl, al raduno dei pentecostali o al congresso della massoneria: qualcosa di molto grosso e importante, ma che alla fin fine coinvolge la città solo fino a un certo punto, e di cui beneficiano soprattutto alberghi, bar e ristoranti. Una declinazione più pittoresca del turismo congressuale o fieristico, insomma.
A giudicare dalle tante facce di concittadini piacevolmente o spiacevolmente sbalordite, l’esperienza è stata un po’ uno choc anche per chi è un fan delle nostre truppe da montagna e ha accolto il raduno con curiosità, spirito di accoglienza e con un afflato di amor patrio che ha fatto sorvolare su ingorghi e viabilità impazzita.
Probabilmente era dal 1945 che a Rimini non si vedevano tanti militari in giro. Ce ne sono letteralmente dappertutto, a tutte le ore, con l’aria di sentirsi a casa loro più di noi. E dove non li vedi li senti comunque nell’aria, con le loro musiche, i loro cori e un vago sentore alcolico che nemmeno la pioggia è riuscita a cancellare. Perché gli alpini sono proprio come ce li hanno sempre raccontati: caciaroni, sbevazzoni, ruvidi, amichevoli, impressionanti per numero e per organizzazione.
Sono così organizzati che sul sito dell’Ana, l’Associazione nazionale alpini, c’è anche un decalogo su come comportarsi alle adunate per mantenere il buon nome delle penne nere. L’Ana evidentemente conosce i suoi polli, visto che fra i vari «comandamenti», oltre ai no alle camionette con le damigiane, alle transumanze disordinate, ai cappelli vilipesi da ornamenti troppo pittoreschi, alle sbronze e agli schiamazzi notturni, c’è anche il divieto di atteggiamenti molesti e insultanti verso le donne.
E qui tocchiamo un tasto dolente, perché all’adunata di Rimini, come a quella di Milano del 2019 e peggio ancora a quella di Trento l’anno precedente, si sono verificati episodi quantomeno sgradevoli, riportati dall’associazione «Non una di meno». Tanto che la vicesindaca Chiara Bellini è intervenuta con un post su Facebook, riferendo di avere segnalato i casi all’Ana «perché il comportamento sbagliato di alcuni potrebbe nuocere alla buona reputazione e al senso civico degli altri.»
Gli episodi riferiti nell’account Instagram di «Non una di meno» parlano di tentativi di abbordaggio, approcci e apprezzamenti volgari, fischi per strada. Insomma, le cose che molti (soprattutto uomini) liquidano stizzosamente con «e cosa sarà mai, in fondo sono complimenti». C’è una cosa che i maschi faticano a capire: per le donne, soprattutto se giovani e sole, frasi come “bionda beato chi ti sfonda” o “bella figa vieni con noi a…” corredata da gesti eloquenti, non sono solo «complimenti maleducati». Le feriscono, le fanno sentire sentire prede, vulnerabili e insicure – perché in molte situazioni lo sono, e perché fin da piccole sono educate a stare in guardia per proteggere la propria integrità fisica, ad avere paura, anche nelle strade della loro città.
Non l’hanno voluto loro, un mondo in cui le donne devono avere paura degli uomini che non conoscono (anche se la cronaca ci dice che per la loro incolumità spesso sono più pericolosi quelli che conoscono bene). Anzi, stanno cercando di cambiarlo, smettendo di subire in silenzio comportamenti che ledono la loro dignità. Le molestie non possono essere considerate “danni collaterali” di un raduno di alpini, non devono proprio accadere; e questo non lo dice solo «Non una di meno», ma la stessa Ana nel suo decalogo: «Rispetto per il gentil sesso: il comportarsi male con loro, unito a sguaiataggini varie, trasforma l’adunata in un baccanale».
Lia Celi