8 giugno 1914 – Anche a Rimini scoppia la Settimana Rossa
8 Giugno 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
L’8 giugno 1914 anche a Rimini scoppia la Settimana Rossa.
Il clima in città è tesissimo, come del resto in tutto il Paese. L’era Giolitti si è ormai conclusa. Basta con la collaborazione del governo liberale con le forze socialiste riformiste.
Adesso governa la Destra, mentre i Socialisti massimalisti rimproverano ai moderati di aver portato a casa un pugno di mosche. Mentre l’Italia ha avuto il finalmente il suo decollo industriale, nonostante qualche timida riforma le condizioni della popolazione restano miserabili.
Inoltre, lo sviluppo riguarda solo il “triangolo industriale” del Regno, mentre tutto il resto, Romagna compresa, ne restano fuori. Non bastasse, l’economia si è arrestata e la mossa di Giolitti per darle una scossa, l’avventura coloniale di Libia del 1912, non ha affatto risolto i problemi.
Anche perché i Libici continuano la resistenza nonostante la resa della Turchia. Risultato: la guerra è una voragine per le risorse dello stato, che ora non bastano più né per le politiche di sviluppo né tanto meno per quelle sociali. E così dal 1900 in poi gli italiani sono costretti a emigrare, principalmente negli Stati Uniti e in Argentina, al ritmo di 600 mila all’anno, il doppio del trentennio precedente, per toccare il record di 873 mila nel solo 1913.
Le elezioni del 26 ottobre 1913, sulle quali le forze popolari contavano molto, si sono però risolte in uno scacco, nonostante il Partito Socialista conquisti un milione di voti e 53 deputati. L’estrema sinistra del partito, guidata dal direttore del giornale Avanti! Benito Mussolini, in parlamento rimane minoranza rispetto ai moderati, ormai tacciati come “notabili”, il che contribuisce ad aumentare l’esasperazione degli animi più accesi. Ancora peggio, i Socialisti sono emarginati dal “patto Gentiloni” fra i liberali e i cattolici, sottoscritto proprio per fermare l’avanzata delle sinistre.
A Rimini il 15 novembre del 1913 la protesta di repubblicani e socialisti contro l’arresto del barbiere Edgardo Sama finisce in sommossa, con spari degli agenti sulla folla, diversi feriti, arresti, sciopero generale e stato d’assedio per due giorni.
Il nuovo governo Salandra nasce il 21 marzo 1914 ed è schiettamente di destra. Tutte le recenti conquiste popolari sono a rischio, mentre premono le spinte nazionaliste, militariste e imperialiste. Il riformismo non ha pagato, la fiducia in una “via legale” al socialismo è ai minimi termini. Nei congressi del PSI di Reggio Emilia prima e poi di Ancona del 27 aprile del 1914, prevale la corrente massimalista di Mussolini, Filippo Corridoni, Alceste De Ambris, Michele Bianchi; molti di loro, come Giuseppe Di Vittorio, sono sindacalisti rivoluzionari che escono dalla Cgil.
Il 7 giugno 1914 ad Ancona, come in molte altre città, si tiene un comizio anti-militarista. La data non è scelta a caso: quel giorno la monarchia celebra la “Festa dello Statuto” e sono previste le consuete parate militari. Su «Volontà», giornale degli anarchici anconetani, si legge: “Il 7 giugno è la festa del militarismo imperante. Faccia il popolo che diventi giorno di protesta e di rivendicazione”.
Il governo ha però proibito tutte le manifestazioni. Dunque gli organizzatori del comizio di Ancona, l’allora repubblicano Pietro Nenni e l’anarchico Errico Malatesta, decidono di spostarlo in una sede privata, alla “Villa Rossa”, sede del partito repubblicano anconetano, alle ore 18,00. Arrivano circa 500 persone fra repubblicani, anarchici e socialisti. Alle fine degli interventi, quelli che escono vengono circondati dalle forze dell’ordine, che vogliono evitare un possibile corteo verso la vicina piazza Roma, dove c’è un concerto della banda militare.
Dal pigia-pigia si passa subito alla rissa. Gli agenti picchiano indiscriminatamente. Dai tetti e dalle finestre piovono pietre e mattoni. Qualcuno spara. Un dimostrante? Una guardia di pubblica sicurezza? Come sia, i Carabinieri aprono il fuoco: 70 colpi.
Tre morti: Antonio Casaccia, 24 anni, Nello Budini, di 17 anni, repubblicani; Attilio Giambrignoni, 22 anni, anarchico. Cinque feriti tra la folla e diciassette tra i Carabinieri.
La notizia vola per tutta Italia. I tumulti si accendono spontaneamente, senza alcun piano preciso. Del resto Mussolini nel congresso di Ancona aveva profetizzato: «Proletari d’Italia! Accogliete il nostro grido: W lo sciopero generale. Nelle città e nelle campagne verrà su spontanea la risposta alla provocazione. Noi non precorriamo gli avvenimenti, né ci sentiamo autorizzati a tracciarne il corso, ma certamente quali questi possano essere, noi avremo il dovere di secondarli e di fiancheggiarli. Speriamo che con la loro azione i lavoratori italiani sappiano dire che è veramente l’ora di farla finita».
A Rimini l’8 giugno 1914 calano in città i contadini, la maggior parte braccianti e mezzadri. Sono inferociti: esasperati dalla disoccupazione, dai trattamenti schiavistici, dalla vera e propria fame. Radunano il loro bestiame nel “prato della Sartona” (dove ora sorge lo stadio “Romeo Neri”) per usarlo come massa d’urto nell’assalto alla città. Il popolino dei borghi si unisce a loro. La gente urla: «Abbasso i preti, evviva la repubblica popolare!». È proprio il recente patto fra cattolici e “signori” a esasperare un anticlericalismo da sempre endemico.
Il 9 giugno in piazza Giulio Cesare si tiene un comizio da cui le forze dell’ordine si tengono alla larga. Ma un poliziotto in borghese viene riconosciuto e se la vede brutta. Si rifugia nella farmacia Duprè, che però viene presa d’assalto, le vetrine infrante; l’agente se la cava solo dopo aver consegnato la pistola. Cala la notte e la città resta al buio, con tutti i fanali spenti.
Il 10 giugno vengono attaccati i «casotti» del dazio, «simboli dell’immiserimento delle masse», bruciandone i registri. L’odiata gabella colpisce tutti coloro che portano a vendere i loro prodotti in città, quindi soprattutto i piccoli coltivatori. Davanti al Seminario, che è di fianco al Tempio malatestiano, esplode una bomba.
I ferrovieri scendono in sciopero, si tenta di invadere la stazione, la polizia lo impedisce, allora si dànno alle fiamme tre vagoni e una pila di traversine.
Si tenta di incendiare l’ingresso del municipio. In serata la folla appicca il fuoco alla porta laterale del Duomo, al tempietto di Sant’Antonio, alla cancelleria vescovile, alla porta della chiesa dei Servi. Le chiese vengono profanate dai contadini che conducono i buoi fin sugli altari. Viene saccheggiata una palestra, per usare gli attrezzi come armi. Poi si passa direttamente ad assalire il tiro a segno, quindi due armerie, svuotate di armi e munizioni vere.
L’11 giugno arrivano rinforzi militari da Forlì, ma devono passare dal borgo San Giuliano, dove sono sono presi a fischi e sassate. Una terza armeria viene saccheggiata. Nuovi tentativi di incendiare il portone del Duomo, quello della Cappella di Sant’Antonio e dell’ufficio del Catasto.
Il 12 giugno lo sciopero termina e in città torna la calma. Ma Rimini resta una città sorvegliata speciale. «Il Giornale del Popolo» (repubblicano) parla di «provocazioni poliziesche coi ‘pattuglioni’» che perquisiscono a marina perfino i turisti ungheresi e i domicili di persone rispettate da tutti, come il mite sessantaquattrenne Domenico Francolini, uomo-simbolo del Risorgimento.
Però tutto sommato a Rimini è andata bene. Nessuna vittima, nessun ferito grave. Non è stato così dappertutto. Il bilancio finale della Settimana Rossa in Italia, mai definitivamente accertato, parla di almeno 30 morti, fra cui molti delle forze dell’ordine; centinaia i feriti e migliaia gli arresti. A Milano Mussolini è bastonato a sangue dalla polizia. Nenni e Corridoni arrestati, Malatesta deve tornare in esilio. A Ravenna Giovanni Vinieri, di anni dieci, è condannato a 22 giorni di carcere per aver tirato sassi contro la forza pubblica. Ricercati romagnoli e marchigiani si rifugiano a San Marino.
Particolarmente cruenti gli scontri a Firenze, Torino, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Genova, Parma; a Fabriano un carabiniere uccide un ragazzo di 14 anni e ne ferisce uno di 12. Le Camere del Lavoro impongono prezzi calmierati per olio e vino, requisiscono grano e macellano animali per poi distribuire gratuitamente le derrate ai proletari.
A Ravenna il commissario di pubblica sicurezza Giuseppe Miniagio muore dopo essere stato colpito alla testa da una bottiglia di seltz durante i tumulti. E’ l’unica vittima in Romagna; una specie di miracolo, dal momento che la situazione da tutti descritta è di “aperta insurrezione”. Amministrazioni comunali votano la decadenza della monarchia e proclamano la repubblica popolare. Le chiese e gli uffici pubblici incendiati non si contano, mentre in alcune piazze si innalzano gli Alberi della Libertà, come quelli della rivoluzione francese. A Villa Savio di Cervia il generale Luigi Agliardi, comandante la brigata di Forlì, viene fatto prigioniero assieme ad altri sei ufficiali. Ovunque devastati i circoli dei “signori” e anche loro proprietà, tagliate le linee telegrafiche, paralizzare le ferrovie e le dogane, disarmati poliziotti, carabinieri e finanzieri. Gli insorti armati istituiscono posti di blocco che si varcano solo con i lasciapassare della Camera del Lavoro, impongono la chiusura degli spacci del monopolio di Stato, organizzano magazzini popolari dove accumulano le requisizioni.
Ma la Settimana Rossa, divampata senza un obiettivo preciso, si spegne da sola. Di lì a poco, il 28 giugno 1914, l’assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo precipiterà l’Europa intera nell’immane tragedia della Grande guerra, che per l’Italia inizierà il 24 maggio 1915. E diversi protagonisti della Settimana Rossa questa volta saranno per l’intervento e si arruoleranno volontari: vanno al fronte Mussolini, Nenni, De Ambris, Bianchi, Di Vittorio. Non pochi perdendovi la vita, come, a soli 28 anni, Filippo Corridoni; in sua memoria il natìo paese di Pausula in provincia di Macerata dal 1931 si chiama Corridonia.