2 dicembre 1918 – Nasce a Rimini Guido Nozzoli, partigiano e giornalista
2 Dicembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
«Guido Nozzoli, l’unico dei nostri che capì come andavano a finire le storie del Vietnam» (Enzo Biagi).
Guido Nozzoli nasce a Rimini il 2 dicembre 1918. «Ero un incontenibile casinista – racconterà lui stesso in un’intervista a Chiamami Città, raccontando di essere stato spedito a Forlimpopoli per fare le superiori «poiché avendo collezionato alle scuole medie inferiori non so quante sospensioni più una proposta di espulsione, la mia presenza di incontenibile “casinista” non sarebbe stata gradita in nessuna delle scuole superiori riminesi. Purtroppo, il treno per Forlimpopoli partiva alle 6.10 e ogni mattina dovevo alzarmi alle 5.30 e fare delle corse mozzafiato per raggiungere in tempo la stazione. Arrivati a destinazione, ci restavano due ore prima dell’apertura della scuola che passavamo giocando a carte nel caffè di un certo Paolino, senza prendere neppure un bicchier d’acqua».
Conseguito il diploma, studia lettere all’Università di Urbino, dove ha fra i docenti Carlo Bo, Mario Apollonio, Clemente Rebora, Alessandro Ronconi e Cesare Musatti, che sarà il padre della riforma psichiatrica. Ma alla fine del 1941, con l’Italia in guerra, viene chiamato alle armi e avviato alla scuola allievi ufficiali nel corpo dei carristi. All’inizio del 1943 viene arrestato in caserma a Bologna, con l’accusa di attività sovversiva mediante distribuzione di volantini intitolati «Non credere, non obbedire, non combattere»; l’altro autore, pure lui incarcerato dietro una delazione di un “amico” comune, è Gino Pagliarani. Entrambi vengono condannati ma subito amnistiati per il Ventennale del Fascismo; Nozzoli viene inviato a Siena col grado di sottotenente.
Dopo l’8 settembre ’43 torna a Rimini e organizza subito un gruppo per la resistenza armata a fascisti e tedeschi. La prima riunione si tiene in un casolare di Montefiore e vi partecipano fra gli altri Gianni Benzi, Angelo Galluzzi, Gianni Quondamatteo, Ezio Venturini, Demos Bonini. Nozzoli diventa comandante partigiano «responsabile diretto» nella zona di Rimini nella 29ª Brigata Garibaldi “Gastone Sozzi”. Con la sua attività contribuisce a salvare la Repubblica di San Marino dal bombardamento a tappeto previsto dagli Alleati, a cui aveva riferito – sono sue parole – «del disfacimento delle difese tedesche e sulla drammatica situazione dei civili rintanati nelle gallerie», oltre centomila italiani.
Dopo la liberazione di Rimini (21 settembre 1944), è fra coloro che cercano di evitare le vendette; fra l’altro, pur avendo scoperto il nome di chi lo aveva tradito (con tanto di ricevuta delle 300 lire della “taglia” riscossa), non lo denuncerà mai. Eletto consigliere comunale del PCI nel 1946, in occasione delle elezioni politiche del 1948 svolge intensa attività di propaganda. Al termine d’un acceso contraddittorio, il celebre cappuccino padre Samoggia, uscito sconfitto nel confronto dialettico, gli scarica addosso anatemi e maledizioni.
Nel frattempo ha iniziato la sua attività di giornalista al «Progresso d’Italia», continuando come inviato a «l’Unità» (edizione di Milano) ed infine a «Il Giorno».
Sue tutti i grandi temi e fatti dell’Italia di allora: il bandito Giuliano, gli operai modenesi uccisi dalla Celere nel 1950, l’alluvione del Polesine, dove è fra i primi a dar notizia della catastrofe. Viaggia poi nell’Africa post-coloniale in Algeria, Congo, Uganda. Infine viene inviato a raccontare la guerra in Vietnam.
Non tralascia comunque le cronache italiane e si occupa del disastro del Vajont; per aver riportato voci su una presunta mancanza di sicurezza della diga del Monte Toc, viene querelato, ma al processo lo stesso Pubblico ministero ne chiede l’assoluzione.
Dopo l’attentato di piazza Fontana (12 dicembre 1969) dà vita con Marco Nozza e Morando Morandini al «Bollettino di controinformazione democratica». E’ il gruppo di giornaisti che fra ostacoli di ogni tipo smonta la versione allora ufficiale della “pista anarchica” che additava in Pietro Valpreda come autore della strage che inaugura la “strategia della tensione”. Sono i cronisti che ascoltano testimoni, smentiscono presunte prove, scoprono trame dei servizi segreti che portano in direzione opposta, quella dell’eversione neofascista abbondantemente supportata da uomini delle istituzioni italiane e straniere.
Nozzoli mai dimentica la sua Rimini, che descrive con affettuosa ironia soprattutto rievocando la vita della provincia degli anni Trenta (nel volume collettivo “La mia Rimini”, 1967). Scrive le biografie del rivoluzionario riminese Amilcare Cipriani e di Giovanni Pascoli (su “l’Unità”, 1954) e dei Ras del regime fascista (Feltrinelli, 1972).
Nel 1973, a soli 55 anni, Guido Nozzoli lascia il giornalismo e da allora non scrive più nemmeno un rigo, ritirandosi nella sua Rimini a condurre l’appartata vita di un tempo.
Nel 1999 la città di Rimini gli assegna il Sigismondo d’Oro.
Guido Nozzoli muore a Rimini l’11 novembre 2000.
Di lui Sergio Zavoli ebbe a dire: «Guido ha interpretato la militanza politica e l’appartenenza partitica con una idealità mai faziosa, dogmatica; fu anzi protagonista di risolute “eresie” in nome dell’intelligenza della Storia e delle ragioni umane, sapendo vivere il suo “scandalo” senza compiacimenti o malizie, ma con la più disarmata e disarmante limpidezza […] mai indulgendo all’abiura, semmai incline al più trasparente e polemico dei distacchi».
Scrisse Guido Nozzoli ne “La mia Rimini”: «La nostra estate cominciava sempre molto prima di quella dei forestieri, tra la fine d’aprile e i primi di maggio. Un mattino, risvegliandosi, si sentiva nella camera, mescolato all’odore della garofanina, un alito fresco che sapeva di cocomero appena tagliato. Era l’odore del mare che il levantino portava fino in città, dopo il lungo letargo dei ‘mesi morti’. Quel giorno lasciavamo i libri nel caffè della Vittoria (madre di ‘Corrado il brado’) e facevamo ‘pufi’ per andare sulla cima del porto a prendere il sole, a tirare sassi ai gabbiani e a guardare Omero che pescava i cefali con la fiocina per rimediare i soldi da giocarsi a ‘scala quaranta’. E c’era sempre qualcuno di noi che si tuffava nudo per il primo bagno, facendo finta di non patire il freddo che gli serrava le mascelle e gli macchiava la pelle di viola».
«La Rimini tra le due guerre, dove siamo nati e cresciuti così come siamo, assomigliava ben poco a quella specie di frenetica Copacabana dei nostri giorni. Con tutte le sue pretese di modernità e di cosmopolitismo era – ce ne saremmo accorti più tardi – una cittadina provinciale di gusto quasi ottocentesco, con tante ville circondate da cespugli di oleandri e di ligustri, qualche solido albergo di stile floreale, la litoranea sonnecchiante fino al tramonto in una sua aristocratica solitudine, e una rete di viali e vialetti, per metà di terra battuta, fiancheggiati dalle cancellate e dalle siepi di qualche orto. Essendo antipatica a Mussolini – che non vi fece neppure costruire la casa del fascio ‘elargita’ anche all’ultimo paesello di Romagna – Rimini fu risparmiata, per sua fortuna, dalla deprimente retorica dell’architettura del littorio, conservando la propria faccia fino quando le bombe non gliela maciullarono con il resto del corpo. L’unica opera nuova che mutasse non sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare ‘di Palloni’. Tra il porto e l’Ausa, nel tratto di spiaggia più elegante, il lungomare cancellò le dune – ‘i muntirun’ – e divenne subito il ritrovo pomeridiano dei bagnanti, l’equivalente estivo del Corso d’Augusto per i riminesi seduti a gruppo sulla lunga balaustrata all’ora del passeggio o pigramente ronzanti in uno sfarfallio di biciclette. Il centro di quel firmamento, il perno di quella giostra, era il Caffè con orchestra di Zanarini, dove si videro i primi gagà spregiatissimi dal fascismo (erano poi tutti figli di fascisti) prendere l’aperitivo seduti sul marciapiede. Tenuta quasi di rigore: la maglia a girocollo blu da cui spuntavano colletti immacolati (…). Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange dell’800».
«Quei partigiani riminesi che arrivarono a Rimini con le prime pattuglie alleate marciando lungo la riva di un mare immoto e deserto nel tiepido sole settembrino, si accorsero subito, sbigottiti, di non aver liberato una città, ma una distesa di rovine. In piazza Giulio Cesare le rane gracidavano nell’acqua putrida stagnante nel crateri delle bombe. Rimini era morta tra le macerie e i calcinacci. Neppure gli alberi s’erano salvati. Di intatto non c’era che una forca di legno grezzo piantata dai nazisti per impiccare tre ragazzi coraggiosi del GAP».