15 dicembre 1515 – I nobili di Rimini cercano di sterminarsi a vicenda
15 Dicembre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 15 dicembre 1515, scrive Carlo Tonini, «Pietro Aretino da Itri, governatore di Cesena, qual commissario del cardinale Giulio de’ Medici, legato di Bologna e di Romagna, pronunciò sentenza contro Paolo e Agostino Torsani, Roberto de’ Maschi, Lodovico Marcheselli ed altri loro complici, condannandoli come contumaci alla confiscazione de’ beni ed a perpetuo esilio dagli stati della Chiesa, con dichiarazione inoltre che se entrassero nel territorio di Rimini, ciascuno potesse impunemente offenderli e ucciderli».
Non solo: «Un’altra sentenza del presidente di Romagna, in data 5 gennaio 1516, troviamo fulminarsi ‘particolarmente contro Agostino e gli altri de’ Torsani in causa degli stessi delitti, fra i quali vi si ricorda specialmente quello, di essersi da essi crudelmente ucciso Bastiano da Padova bargello generale di Romagna con alcuni suoi stipendiarii».
Torsani, Maschi e Marcheselli sono fra le famiglie nobili più eminenti di Rimini. Cosa hanno combinato per meritare condanne tanto severa?
I Malatesta hanno venduto nel 1503 la città che, dopo la parentesi veneziana, dal 1509 è governata direttamente dalla Santa Sede tramite i suoi Legati in Romagna. Ma le fazioni continuano a combattersi, in un intreccio inestricabile di faide personali e appartenenze politiche. Non è dunque facile capire le motivazioni di quanto accade alla fine di quel 1515, ma certamente è di una gravità estrema.
Ai primi di novembre Paolo e Agostino Torsani, Roberto de’ Maschi, e Lodovico Marcheselli si ritrovano in casa di quest’ultimo. «Nonostante che avessero già fatta pace colla parte opposta per mezzo di pubblico istrumento (un patto firmato davanti a un notaio), congiurarono di uccidere Cesare Battaglini, Antonio Dini, Pietro Maria Tingoli e tutti i loro seguaci e partigiani che riposando sulla data e ricevuta fede di nulla sospettavano».
I congiurati sono “nostalgici” malatestiani? Forse, ma nelle condanne non si fa mai cenno a una loro relazione con gli esautorati signori di Rimini, ma solo di rivalità fra clan nobiliari. D’altra parte, in passato sia i Marcheselli (uno di loro fu linciato ingiustamente per la morte di misteriosa di Sallustio, figlio legittimo di Sigismondo) che i Battaglini (coinvolti nella cosiddetta congiura degli Adimari contro Pandolfaccio e crudelmente puniti) ebbero a soffrire parecchio da alcuni Malatesta; ma da altri ne furono invece beneficiati, perché era innanzi tutto la stessa famiglia signorile ad essere ferocemente spaccata da rivalità interne.
Il 4 novembre il gruppo passa all’azione. Bartolino Torsani insulta e poi ammazza il Bargello (oggi diremmo il capo della polizia), ferisce con la spada l’uffìciale della custodia, minaccia con le armi gli stessi Consoli e poi corre «furibondo» con i suoi alla casa di Antonio Dini, dove si è rifugiato anche Cesare Battaglini. «E tirando colpi d’archibugio contro le finestre e la porta, si sforzò di entrarvi per ucciderli».
Ma questi si difendono alla brava e allora viene presa d’assalto la casa di Matteo Tingoli, «e trovato lui medesimo innanzi ad essa, lo investì fieramente, gridando “amaza amaza, carne carne”; tal che egli a mala pena potè ridursi dentro a salvamento». Ma non è finita, perché un portone viene abbattuto e così un secondo che immette nel cortile. Da qui gli aggressori aprono il fuoco con archibugi e spingarde.
Ma anche i Tingoli si difendono. Torsani e i suoi desistono dall’assalto, ma alzano la posta: occupano a mano armata la piazza, sordi alle lusinghe come alle minacce dei Consoli. Poi « si condussero alla porta di S.Andrea, e cacciatene le guardie la apersero e infransero a colpi di scure per introdurre nella città gli altri complici loro e quanti più potessero dal contado sanguinarii e ladroni, e la tennero cosi occupata per cinque ore».
Non si sa come finisce per quel giorno, né cosa volessero esattamente i nobili insorti, se un colpo di stato, una vendetta privata o una razzia in grande stile. Si apprende però che il giorno dopo «radunatosi il Consiglio ecclesiastico, salì la ringhiera Ercole Spavaldi, e prese ad accusare d’ignavia e pusillanimità quei riminesi, i quali nel tumulto del giorno innanzi non pigliarono le armi contro coloro che avevano turbato ed anche maggiormente volevano turbare il pacifico stato della patria: e quindi si fece a proporre che tutti i cittadini e abitatori di questa fossero tenuti di convenire colle armi nella piazza della fonte e agli ordini del Governatore e dei Consoli dovessero far testa ai sediziosi, sotto pena che i cavalli e i fanti stipendiarii del Comune fossero mandati a stare e a vivere nelle case e a carico di coloro, i quali non rispondessero alla chiamata. E chi non avesse armi se le procacciasse, e gli inobbedienti fossero dichiarati infami e decaduti da ogni ufficio e grado, e potesse ciascuno impunemente offenderli e batterli».
Si va ai voti: «Cento e nove ballotte approvarono una si fatta parte; due sole furono contrarie». Si costituisce anche una specie di “comitato d’emergenza”: 12 «probi cittadini», tre dei quali non sono nobili ma artigiani, che avrebbero dovuto organizzare la reazione dei Riminesi nel caso di altre sedizioni.
A quanto pare la misura funzionò, poiché non vennero registrati altri incidenti. Né si sa nulla sulla sorte dei sediziosi, ma probabilmente se la cavarono con l’esilio, perché dopo fatti tanto clamorosi una pena capitale avrebbe lasciato qualche traccia scritta. Alle famiglie dei congiurati coinvolte vennero comunque confiscati tutti i beni e furono bandite con «perpetuo esilio dagli Stati della Chiesa». Ai Riminesi era fatto obbligo di «offenderli e ucciderli tutti», fatta eccezione per le donne e i bambini; chi se ne fosse astenuto, anzi li avesse aiutati, avrebbe patito l’interdetto ecclesiastico e una colossale multa da mille ducati.
Il Tonini conclude cercando di consolare i Riminesi con un “mal comune, mezzo gaudio”: «Deplorevoli fatti eran questi veramente: i quali per altro non accadevano soltanto nella città nostra, ma nelle vicine pur anco, e segnatamente in Forlì». Ma anche invitando i contemporanei a non rimpiangere troppo lo splendido Rinascimento: «onde è a concludere che assai tristi erano le condizioni di que’ tempi, che forse alcuni non mancano d’invidiare».