Oggi vorrei proporre tre titoli di libro per tre “case di casa nostra”.
La casa dalle finestre nere
di Clifford Simak.
Vi ricordate di Alleanza Nazionale, quella cosa messa su in quattro e quattr’otto da Fini nel 1994, per far finta che Berlusconi si fosse portato al governo un partito un po’ meno neofascista del Movimento Sociale? Dopo averla sciolta nel 2009, quasi tutti i suoi maggiorenti si sono ritrovati, chi più e chi meno, con un “problema casa”. Per un po’ credettero di averlo felicemente risolto accettando l’offerta di ospitalità presso la berlusconiana “Casa delle libertà”; ma di lì a poco Berlusconi, necessitandogli nuovi spazi per le serali riunioni di bunga bunga con le olgettine, decise di trasformarla in una più sollazzante “casa delle bambole” e così dovettero mettersi a cercarne un’altra: tranne a Rimini, dove l’imperterrito Gioenzo Renzi rimane tuttora asserragliato nella vecchia sede, con tanto di insegna e di bandiera di AN che fu.
Invece gli altri, dopo il “tana libera tutti”, si sono accasati “ognuno come poteva”, a cominciare da Fini che – mi si passi il bisticcio di parole – si è incasinato nella “casa di Montecarlo”, mentre La Russa ha trovato rifugio nella “casa del bottone” (attaccandocelo in TV quasi ogni sera) e alla Mussolini non è rimasto che ritirarsi nella “casa del nonno”, a stramaledire Sgarbi, la Santanché, Luxuria, la Belillo e chiunque altro le capitasse a tiro. Solo Berselli ha voluto esagerare: alla seconda casa a Montefiore ne ha ora aggiunta una terza: Casa Pound, dove si trova meglio perché «…del fascismo ho sempre condiviso le idee, i principi e i valori (…) Esattamente come Casa Pound. D’altronde anche il Msi era apertamente fascista…».
Chi ha avuto e sta tuttora avendo qualche problema in più è la cameratessa Giorgia Meloni. Essendosi parcheggiata presso i fratelli (quelli d’Italia, perchè «prima gli Italiani»), ambirebbe ad avere una casa più salubre e meno tetra; ragion per cui sta inoltrando domande in tutta Italia, nella speranza di vedersi assegnare un alloggio di edilizia economica e popolare. Ma niente da fare: come lei stessa ha avuto modo di denunciare nei giorni scorsi, «…l’Anpi si sta facendo promotrice di mozioni in cui si dice che anche per avere accesso alle case popolari bisogna fare dichiarazione di antifascismo».
Ecco perché la manifestazione antifascista di due sabati fa, indetta a Rimini dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha visto una discreta partecipazione nonostante un’improvvida scelta della data l’avesse incastrata fra il tanto atteso “sabato felliniano” e la fiera del gelato. Non ci vuole molto a capire che la gran parte dei convenuti era lì solo con l’intento di farsi notare dagli spioni dell’Acer e acquisire qualche prezioso punto in più nella graduatoria per l’assegnazione della casa.
Sia come sia, faceva però un gran piacere vedere finalmente delle facce perbene sotto l’Arco d’Augusto, attorno al cippo che ricorda il sacrificio del giovane partigiano Silvio Cenci; in quello stesso spazio che, invece, viene troppo spesso insozzato dai repellenti micro-bivacchi dei fascisti di Forza Nuova, i quali fanno talvolta partire di lì pure i “lugubri corteini” che impuzzolentiscono l’aria del Centro Storico. Con il loro lento incedere a passi cadenzati, vestiti tutti di nero dalla testa ai piedi, mi fanno tornare in mente gli scarafaggi che da bambini, nelle nostre primaverili scorribande in spiaggia, vedevamo arrampicarsi sulle dune: quelli che i riminesi veraci continuano a chiamare «i bagarun ruglamerda».
Cuore di Casa
di Gabriella Tabbò
Una mattina della settimana scorsa ho incontrato il mio amico Enrico Santini, ambasciatore della corianesità a Rimini e console generale della riminesità a Coriano, che aveva in mano un bel mazzo di rose rosse destinato ad Adele, essendo il loro anniversario di matrimonio. Non ho potuto fare a meno di raccomandargli prudenza: «Ma sei matto a farti vedere in giro con tutto quel rosso? E se lo viene a sapere la tua sindaca?». Naturalmente il mio riferimento era all’esilarante pantomima innescata dalla Sindaca di Coriano a proposito di un presunto falso storico scovato dagli illustri studiosi che siedono nella Casa Comunale.
Poiché quel Comune continuava da anni a esibire il vecchio stemma, in cui compariva un cuore rosso anziché argento come indicato dallo Statuto, l’Amministrazione – su proposta della Giunta e con voto unanime del Consiglio – ha opportunamente (anzi, doverosamente) deciso di porre fine a tale incongruenza. Se la cosa fosse finita lì, felicitazioni e applausi per tutti.
Invece la Sindaca non ha resistito alla tentazione di lanciarsi in un’altisonante esaltazione di quell’atto dovuto, attribuendogli però il significato di un doveroso ripristino della verità storica e ventilando, non senza sarcasmo, la possibilità che quel “rosso abusivo” altro non fosse che il “colore identitario” dei comunisti, da loro stessi imposto. Di qui il suo aulico e compiaciuto poetare, con sovrabbondanza di maiuscole: «Abbiamo eliminato dal Cuore (simbolo della Città), il colore rosso introdotto arbitrariamente nel passato. L’appartenenza ad un territorio è Provenienza, Radici comuni e Storia. Quella Storia che nessuno ha il diritto di cancellare e che tutti noi oggi continuiamo a scrivere insieme. La Bandiera di Coriano, non è Politica ma Cultura». Un po’ come dire che se Leningrado è tornata a chiamarsi San Pietroburgo, perché mai il cuore di Coriano dovrebbe rimanere “rosso comunista”, anziché diventare “argento democratico”?
Peccato che già all’indomani qualcuno abbia dimostrato, con tanto di immagine, come gli stendardi sia del Comune che della Parrocchia contenessero già nel 1700 il cuore rosso!
Ora non resta che attendere la prossima tappa di questa fondamentale restaurazione storico-culturale in salsa corianese. Per esempio, la bonificante “derossizzazione” della biblioteca comunale, cominciando con l’eliminare Il filo rosso di Paola Barbato, Cinquanta sfumature di rosso di E. L. James e Vita dei campi di Giovanni Verga, perché fra le sue novelle c’è Rosso Malpelo.
Eh sì, sarà dura per i comunisti rialzare la testa a Coriano! Hanno voglia, loro, quando scrutano il cielo e si lasciano scappare «rosso di sera bel tempo si spera», a far credere che quello sia soltanto un vecchio adagio popolare: la Sindaca sa bene che invece è l’incipit del Manifesto del Partito Comunista di Carlo Marx.
Casa d’altri
di Silvio D’Arzo
Sono sicuro che altri, al pari di me, siano rimasti alquanto sorpresi dall’adesione di Roberto Biagini a LeU, dal momento che nel suo brillante percorso politico e amministrativo aveva sempre messo in luce doti di “riformista con i piedi per terra e la testa sulle spalle”, mostrandosi costantemente estraneo (e per questo inviso) a certo sinistrismo melenso e insieme acidulo, che di quel partito è un po’ il padrone di casa. Un partito che si è dato come traballante capo un “alieno di sinistra” venuto dallo spazio, e dove anche tanti degli “arrivati dal PD” – D’Alema e Bersani in testa – fanno ormai a gara nell’acconciarsi a sembrare anch’essi dei “fassiniani farfuglianti”, o dei “civattiani petulanti”, o dei “vendoliani predicanti”, o degli emuli di Fratoianni, detto “lo Scamarcio della sinistra”, non si sa se per l’avvenenza o per le sue doti recitative.
Essendo comunque Roberto uno dei pochi in grado di “dare due giri” al resto della nuova compagnia, è stato naturale che a Rimini LeU gli abbia offerto la candidatura. Ma siccome è a Roma che oggi si decide “tutto in tutti i partiti”, ecco che a candidatura già firmata gli arriva il divieto degli “scamarci” a riconoscergli la “patente di sinistra”. La cosa avrebbe giustificato un legittimo contenzioso, ma Biagini è cresciuto a una scuola dove s’impara che il senso di responsabilità può all’occorrenza indurti ad un passo indietro. Per cui ha preferito ritirarsi con grande dignità, permettendo l’entrata in campo della “riserva di lusso” che stava in panchina: Giuseppe Chicchi, che può così aggiungere la candidatura per LeU a quelle ricevute in passato da PdUP, PCI, PDS e DS.
Una domanda in amicizia, caro Roberto: ma sei sicuro di non aver sbagliato casa?
Nando Piccari