Sostenere che il voto del 4 marzo non avrebbe indicato una maggioranza, significa non sapere far di conto.
Mettendo infatti insieme il 32,7% dei 5 Stelle con il 17,3 della Lega e il 4,3% di Fratelli d’Italia, si arriva addirittura al 54,3% , una maggioranza più che sufficiente a concretizzare ciò che un così grande numero di elettori ha mostrato di volere: un governo che sia espressione di forze politiche portatrici di omogenei “valori non negoziabili”, quali populismo, razzismo e qualunquismo; magari con l’aggiunta di qualche stilla di neofascismo a dargli una sferzata di energia.
Non è poi detto che una simile compagine governativa, una volta ai blocchi di partenza, non possa trovare l’aggiuntivo sostegno di una parte di Forza Italia e di qualche altro singolo parlamentare “di buon cuore”. Ad accrescere la rappresentatività popolare dell’unico “governo possibile” concorrerebbe così anche una quota di quel 20% che, già in partenza, aveva messo in conto l’eventualità di avere Salvini o Di Maio premier. Con buona pace di Grasso & compagnia che, per meglio lottare contro il sicuro “inciucio del Nazzareno”, s’erano seduti sulla riva del fiume aspettando che passasse il cadavere del PD di Renzi, ma hanno poi avuto la sorpresa di veder passare due cadaveri, di cui uno era quello di LeU.
Personalmente non mi sono mai riconosciuto nella mistificante “pappa del cuore” del giorno dopo, fatta di frasi del tipo “rispetto del voto, perché gli elettori hanno sempre ragione”. Poiché l’italiano ha un senso preciso (tranne che per Di Maio) e dal momento che considero degradante essersi fatti turlupinare da Casaleggio e Salvini, mi guardo bene dallo sprecare la parola “rispetto”, limitandomi a dire che in democrazia chi ha perso deve saper accettare con dignità la sconfitta e riconoscere il diritto a governare dei vincitori, anche se è convinto che i loro elettori abbiano avuto torto marcio.
È dunque evidente che l’impeccabile appello di Mattarella al senso di responsabilità non possa che essere destinato ai “soci” di quel cospicuo 54,3%; in primis a leghisti e grillini, affinché smettano di far finta di non essere le due facce di una stessa medaglia, solo perché si diversificano in qualche marginale sfumatura di linguaggio comunicativo, non certo di contenuto.
Prendiamo ad esempio il tema dell’assistenzialismo clientelare. Se i legaioli l’hanno nel tempo cavalcato per privilegiare “categorie forti” ed evasori cronici del nord (vedi le famose “quote latte”), i grillini stanno facendone il loro “cavallo di Troia” soprattutto nel Mezzogiorno. Dove, con l’illusorio miraggio del “reddito di cittadinanza”, riportano in auge l’elemosina di Stato in una versione talmente dirompente e umiliante – “tu mi dai il voto, io ti pago per stare a casa a non far niente” – da superare perfino le false pensioni di invalidità che per decenni hanno fatto la fortuna della Democrazia Cristiana.
Ma anche sul tema-chiave dell’immigrazione le loro sintonie vanno ben al di là di certe apparenze. È vero che Salvini ha sempre usato toni appena un pelino più sguaiati: «Prima gli Italiani». «Cacceremo mezzo milione di immigrati (..) immigrazione vuol dire delinquenza». «Vogliamo difendere una cultura che è a rischio». «L’emergenza è pulire…blindare i confini..punire ed espellere».
Un linguaggio, questo, che gli ha fruttato la fetta elettorale più grossa della diffusissima “xenofobia popolare” oggi dilagante nel Paese, di cui il trionfo della Lega a Macerata e a Gorino è l’emblema più inquietante.
Nel Comune marchigiano è infatti passata dallo 0.6 al 21% , “trainata” di fatto dall’impresa criminale di un suo ex candidato, il neo-nazista Traini, e grazie anche al “regalo” ricevuto da quei delinquenti no-Tav e dei centri sociali infiltratisi, come al solito, nelle manifestazioni antifasciste che ne sono seguite. Mentre a Gorino, dove mesi prima le “camicie verdi” avevano capitanato una sommossa contro “l’invasione” di alcune sventurate dalla pelle nera, l’incremento legaiolo è da paura: dal 3 al 43,5%.
Però neppure Grillo, come si dice da noi, “s’è fatto guardar dietro”, concentrandosi particolarmente sullo “Ius Soli”, a dettare la linea che il replicante bamboccino Di Maio ha poi seguito alla lettera: «È una cosa che può cambiare la geografia del Paese…una legge che attrarrà ancora più migranti verso l’Italia». «Le priorità del paese sono ben altre». «La cittadinanza a chi nasce in Italia è senza senso».
Ma anche su altri punti non è stato da meno di Salvini: «Se avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità avremmo ottenuto percentuali da prefisso telefonico». «Se vuoi dare una passatina a un marocchino che rompe i coglioni, lo carichi in macchina e, senza che ti veda nessuno, lo porti in caserma. Ma non in mezzo alla strada, dove con un telefonino ti riprendono…».
Per non parlare della piena sintonia su fascismo e antifascismo. Dice Salvini: «Quello tra fascisti e antifascisti è un derby del passato (..) in Italia c’erano due fascismi, il fascismo e l’antifascismo». «La gente non chiede anti-fascismo ma lavoro».
Grillo si accoda: «Se io sono antifascista? Questo è un problema che non mi compete. Se un ragazzo di Casa Pound volesse entrare nel nostro Movimento, con in requisiti in regola, non ci sarebbe nessun problema. Che poi hanno pure alcune idee condivisibili».
Dovendo però i co-vincitori del 4 marzo travestirsi in questi giorni da “uomini di Stato”, ecco che allora i grillini abbandonano repentinamente il “vaffanculo”, l’incitazione all’odio nelle piazze e lo “squadrismo parlamentare”; allo stesso modo i legaioli pongono nel dimenticatoio, in quattro e quattr’otto, il “fora di ball” gridato a squarciagola, la tracotante boria da bulli, l’invocazione della ruspa contro i campi nomadi. E si mostrano “fratelli di sangue” perfino nella “finzione scenica” dei sorrisi melliflui che ostentano in televisione, nel belare plauso per «l’invito alla responsabilità del Presidente della Repubblica».
Come dice quel proverbio “chi si somiglia si piglia”; per cui, raccogliendo l’esortazione di Mattarella e forti di indiscutibili sintonie culturali e ideali, Salvini e Di Maio non avranno gran difficoltà a sfornare un comune programma politico e dare all’Italia il governo che la maggioranza dei suoi cittadini s’è scelta.
Con buona pace di chi, nel PD, è tormentato dal ridicolo assillo di “non lasciare i 5 stelle in braccio alla destra”. E se gli obietti che “i grillini, di loro, non sono forse già ‘la destra’?”, ti risponde che “però buona parte dei nostri voti persi sono andati a loro, e un po’ anche alla Lega”. Il che sottintende che sia tutta colpa di Renzi, per non aver portato il PD sulle stesse posizioni di Di Maio e di Salvini.
Evidentemente il tromboneggiante Emilano – al pari del farfugliante Fassina, del bel tenebroso Fratoianni e del ringhioso D’Alema in LeU; con l’aggiunta del sempre più patetico Cacciari in Tv e sui giornali – ha preso sul serio l’idea di “pluralismo” sciorinata l’altro giorno dal guitto genovese che divide con “il clan dei casaleggesi” la proprietà del partito 5 stelle: «Noi siamo un po’ dentro democristiani, un po’ di destra, un po’ di sinistra, un po’ di centro… possiamo adattarci a qualsiasi cosa». Insomma, una specie di mignottesco “noi andiamo con tutti, purché ce ne venga profitto”.
Ecco perché i 5 stelle costiutiscono una destra ancora più pericolosa di quella tradizionale: perché la loro studiata abilità a “travestirsi continuamente da qualcosaltro” ci riporta al “movimentismo” fascista degli albori.
Mi è capitato ancora di ricordare ciò che scriveva Gramsci qualche tempo dopo l’andata al potere di Mussolini: «Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano».
Non vi sembra che parli di qualcosa dei giorni nostri?
Nando Piccari