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4 ottobre 584 – Il primo Duca di Rimini


4 Ottobre 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Flavio Maurizio Tiberio (Arabisso, 539 circa – Nicomedia, 27 novembre 602, nell’immagine in apertura) fu l’imperatore dei Romani dal 582 alla sua morte. Nessuno dei suoi contemporanei l’avrebbe definito “imperatore bizantino”, come si fa oggi nei libri di storia. A quei tempi di imperatore ce n’era uno solo, era quello romano e stava a Costantinopoli. Maurizio era universalmente riconosciuto quale diretto successore di tutti quelli che avevano regnato da Ottaviano Cesare Augusto in poi.

Maurizio (a sinistra) ordina l’esilio del cognato, generale Filippico

Nato ad Arabisso in Cappadocia (l’odierna città turca di Yarpuz), Maurizio apparteneva a una famiglia aristocratica romana trasferita da secoli in Asia minore. Cresciuto a Costantinopoli alla corte di Giustino II, successore di Giustiniano il Grande, a 39 anni fu nominato magister militum (generale) dal nuovo imperatore Tiberio II, del quale era amico e stretto collaboratore. Il suo compito era affrontare il nemico di sempre, l’impero persiano dei Sasanidi. Lo assolse nel modo più brillante collezionando in tre anni una vittoria dopo l’altra, devastando la Mesopotamia e minacciando la stessa capitale persiana Ctesifonte (presso l’attuale Salman Pak, nel cuore dell’Iraq). Costretti i Persiani a una pace umiliante, tornò a Costantinopoli per celebrare il suo trionfo, coronato dal matrimonio con Costantina, la figlia dell’imperatore. Era il 582 e di lì a poco Tiberio II morì. Maurizio fu il suo naturale successore.

Le rovine di Ctesifonte in Iraq

Il nuovo imperatore aveva assicurato che la pace in Oriente era ripristinata, ma in realtà le guerre continuarono durante tutto il suo regno e non solo contro i Persiani. Anche in Occidente e in Africa l’impero aveva grossi problemi, mentre Avari e Slavi premevano da nord-est. Giustiniano aveva riconquistato l’Italia al prezzo di una ventennale e devastante guerra per scacciare gli Ostrogoti, ma la penisola era stata invasa dai Longobardi già nel 568, appena 15 anni dopo la fine della guerra gotica. In Africa Mauri e Visigoti erano una minaccia costante. Per fronteggiare i “barbari”, Maurizio riorganizzò completamente l’assetto dei territori in pericolo.

L’armamento dei soldati imperiali nella raffigurazione dei Santi guerrieri Teodoro d’Antiochia (con la lancia) e Teodoro Tirio (con la spada)

Nel 580 Tiberio II aveva effettuato l’ennesima suddivsione amministrativa dell’Italia in cinque eparchie, l’equivalente in greco delle provinciae romane: Aemilia, Annonaria, Calabria, Campania e Urbicaria. Maurizio creò invece gli Esarcati, presieduti da governatori militari. L’Esarca era una sorta di viceré che riuniva nella stessa persona i poteri militari e quelli civili. E li poteva gestire una discreta autonomia; fra questi poteri c’era la nomina dei duces, ovvero i Duchi responsabili della difesa armata dei distretti in cui l’esarcato era suddiviso.

L’Esarca d’Italia risiedeva non a Roma ma a Ravenna: isolata dalle acque era pressochè inattaccabile senza una flotta, e solo l’impero ne possedeva una. La riforma nei territori italiani non si sa bene a che anno risalga: la prima menzione dell’Esarcato d’Italia è in una lettera di Papa Pelagio II, datata al 4 ottobre 584, in cui il pontefice chiede all’Esarca (forse il patrizio Decio menzionato nella stessa lettera) aiuti contro i Longobardi. Maurizio aveva ripartito l’Esarcato italiano in sette distretti, strettamente controllati dall’Esarca di Ravenna. Erano: Ravenna stessa (che oltre all’Esarca aveva quindi un suo Duca), la Pentapoli, Roma (divenne in seguito Ducato romano), Napoli (poi Ducato di Napoli), Calabria (che comprendeva anche la Puglia, poi Ducato di Calabria), la Provincia Maritima Italorum (la Liguria, ma anche l’attuale Piemonte meridionale, la parte sud-occidentale della Lombardia e l’estremità occidentale dell’odierna Emilia), Venezia ed Istria (poi Ducato di Venezia, il cui dux sarà il Doge). C’erano inoltre Corsica, Sardegna e Sicilia che però non erano considerate parti dell’Italia; insieme a quel che restava della Spagna e alle isole Baleari, fin dai tempi di Giustinano erano sottoposte alla Prefettura o Diocesi d’Africa, a sua volta divenuta Esarcato.

L’impero Romano “bizantino” all’epoca di Tiberio II (in rosso la Diocesi d’Africa, poi Esarcato)

 

Il Ducato di Pentapoli (πεντάπολις, “cinque città” in greco) in realtà comprendeva i territori di dieci città. Al suo interno era infatti suddiviso in Pentapoli Marittima e in Pentapoli Annonaria. Costituivano la Pentapoli Marittima Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona. La Pentapoli Annonaria, detta anche “montana”, era invece formata da Gubbio, Cagli, Urbino, Fossombrone e Jesi; diversi studiosi moderni la identificano con la Provincia castellorum citata nella Cosmografia ravennate, lista di luoghi e città (dall’India all’Irlanda) compilata a Ravenna nel VII secolo. Fatto sta che si trattava di una zona densamente fortificata allo scopo di mantenere il controllo della consolare Via Flaminia, ossia la parte settentrionale del cosiddetto “corridoio bizantino”, la striscia vitale che congiungeva Ravenna a Roma. Un “incastellamento” che precedette di molti secoli quello sviluppatosi in tutta Europa a ridosso dell’anno Mille caratterizzando fin da allora il territorio nel modo che ancora oggi vediamo. Nella sola Valmarecchia doveva già esistere la piazzaforte di Mons Feretri, futura San Leo, ma alcuni fanno risalire a quell’epoca anche le torri di Saiano, Maciano, Cicognaia, le primitive fortificazioni di Verucchio, mentre a Rimini la Scolca (altrove “scolta”) sui colli di Covignano era la “sentinella, posto di vedetta” ai tempi delle interminabili guerre fra Longobardi e “Romani”.

Torri e fortini però destinati esclusivamente alle guarnigioni militari e dipendenti da un’unica autorità centrale, mentre i castelli feudali rappresenteranno l’opposto: la frammentazione dello stato in potentati anche minuscoli, ma autosufficienti e sostanzialmente autonomi. Continuavano a chiamarsi castra come gli originari accampamenti fortificati romani, ma appartenevano al signore locale – che spesso erano le grandi abbazie e i vescovi – che vi accoglievano e controllavano l’intera comunità a lui soggetta.

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L’Italia “bizantina” alla fine dell’VIII secolo

Ogni Duca comandava un Numerus, forza permanente di circa 500 fanti; a Rimini era perciò di stanza il Numerus Ariminenses (citato in una lettera di papa Gregorio Magno). Gli inquadramenti e le denominazioni dei reparti imperiali variarono continuamente e la scarsità dei documenti non aiuta a districarsi. Certamente era fondamentale la cavalleria suddivisa inizialmente in tagmata, dove erano impiegati sia arcieri che lancieri, oltre ai celebri Catafratti, cavalieri e cavalli coperti di corazze a scaglie a imitazione di quelli iranici e dei popoli delle steppe. Inoltre ogni comandante poteva avere un certo numero di bucellarii, milizie private che pagava di tasca sua.

Sarmati catafratti raffigurati nella Colonna Traiana in fuga davanti ai Romani

Infine c’erano gli addetti alle artiglierie (tormenta), che dovevano difendere la città con macchine da lancio come baliste e scorpioni; erano sotto la responsabilità di un magistrato municipale, il Pater Civitatis (πατὴρ τῆς πόλεως). Questo “padre della città”, in origine nominato direttamente dall’imperatore e già da Giustiniano, nei documenti appare talvolta come esattore, altre come giudice, oppure reponsabile della polizia urbana, ma anche della fabbricazione e custodia delle armi difensive, appunto. A Rimini dopo il XII secolo divenne il cognome di chi evidentemente aveva ricoperto tale carica di padre in figlio e a lungo: la famiglia ghibellina dei Parcitade, che nella seconda metà del XIII secolo contese ai guelfi Malatesta il dominio della città finchè non ne fu scacciata.

Artiglieria difensiva antica

 

Tutti questi soldati, oltre a quelli che si offrivano sul posto (il servizio militare non era obbligatorio e piuttosto ben retribuito, per l’epoca) provenivano da ogni parte dell’impero e in particolare dalle popolazioni più povere e bellicose come gli Isauri dell’Asia minore. Ma era del tutto normale reclutarli anche fra i “barbari”: Germani (apprezzatissimi gli Scandinavi), Àvari di origine iranica, Slavi, Arabi (rinomati i loro cavalieri seminudi e di famigerata ferocia) e perfino fra gli stessi Longobardi contro cui dovevano combattere. D’altra parte il regno longobardo d’Italia fu contrassegnato dall’inizio alla fine da feroci rivalità interne, con re che quasi mai riuscirono a imporsi a tutti i loro duchi. Col permesso del loro padrone potevano arruolarsi anche gli schiavi. Unica condizione per tutti, che fossero battezzati.

 

Elmo longobardo ( Württembergerghisches Landesmuseum Stoccarda)

Almeno per i tempi più antichi, i documenti parlano di un unico Duca della (doppia) Pentapoli. E attestano la presenza di un dux permanente almeno a partire dal 591 in una sola città: Rimini. Dal solito papa Gregorio Magno sappiamo che il dux di Rimini in quell’anno era tale Arsicino o Ursicino. Nel 598 il magister militum Bahan invase il Piceno longobardo spingendosi fino a Osimo finchè la sua avanzata fu arrestata da Ariulfo Duca di Spoleto nei pressi di Camerino. La stessa corrispondenza gregoriana ci informa che Bahan era il successore di Arsicino quale Duca di Rimini. Sono gli unici nomi di Duchi riminesi “bizantini” che ci sono rimasti.

In alto sulla destra, il settore tratteggiato (A) indica la Corte dei Duchi secondo la ricostruzione del Tonini. Sulla sinistra la parte della città rimasta disabitata nell’Alto Medioevo. I cerchi neri con numeri indicano le chiese documentate fra i X e l’XI secolo: 1. Abbazia SS. Pietro e Paolo (poi S. Giuliano); 2. S. Maria in corte; 3. Cattedrale di S. Colomba; 4. SS. Martino e Savino; 5. S. Silvestro; 6. Chiesa e Monastero S. Tomaso; 7. S. Michele in foro; 8. S. Maria in Trivio (futura S. Francesco e Tempio Malatestiano); 9. S. Innocenza; 10. S. Agnese; 11. SS. Andrea e Donato; 12. S. Giovanni Battista; 13. Abbazia S. Gaudenzo; 14. S. Gregorio)

Dopo due secoli di incessanti guerre e guerriglie durante le quali i Longobardi erosero all’impero terra dopo terra, nel 751 il loro re Astolfo ebbe alla fine ragione dell’Esarcato e conquistò quindi anche Rimini. Restava solo il Ducato di Roma, ma a quel punto papa Stefano II chiese soccorso al re dei Franchi Pipino il Breve. Nel 754 i Franchi sgominarono i Longobardi e Pipino costrinse Astolfo a mollare le ultime conquiste. Non restituendole però al legittimo proprietario, l’imperatore romano di Costantinopoli, bensì cedendolo alla Santa Sede. La successiva reazione longobarda di Desiderio (che nel 772 per prima cosa rioccupò proprio Ravenna e Pentapoli), la nuova vittoriosa calata in Italia dei Franchi di Carlo Magno, la sua incoronazione a Sacro Romano Imperatore da parte di papa Leone III nel Natale dell’800, sono storie arcinote.

Pipino il Breve dona l’Esarcato di Ravenna a papa Stefano II

Rimini ebbe da allora altri Duchi, nominati però non più a Ravenna ma a Roma. Non senza resistenze, anche armate, da parte dell’Arcivescovo metropolita di Ravenna, che si riteneva autonomo (“autocefalo”) dall’Urbe nonchè legittimo erede delle terre imperiali ormai chiamate Romània in contrapposizione alla Langobardia. L’autorità suprema del pontefice romano non era infatti per nulla scontata e sarebbe rimasta in discussione ancora per parecchio tempo.

L’arca del Duca Martino e del figlio Agnello, reimpiego di un scarcofago ravennate del III secolo. Le figure ai lati appartengono alla decorazione originaria, quando non rappresentavano angeli ma genii alati

Di questi Duchi “romani” conosciamo: Maurizio (citato nel 770); Giuliano (806, Iulianus Gloriosus Dux); Martino (893, di cui si conserva nel Museo di Rimini l’arca funeraria che era nella cattedrale di Santa Colomba); forse Orso (905). Alcuni fanno di questo Ursus dux il personaggio che firma l’epigrafe della pieve di San Leo (882); ma altri vogliono costui Duca di Montefeltro, cioè della stessa San Leo e del suo territorio, ammettendo che tale ducato esistesse. Sempre a un supposto Duca Orso viene attribuito il sigillo bronzeo (del 991?) dove per la prima volta si vede lo stemma municipale di Rimini con il Ponte e l’Arco (già sormontato da merli). Tuttavia molti asseriscono trattarsi di un falso fabbricato nei secoli successivi.

Il presunto “sigillo del Duca Orso”

 

I Duchi di Rimini risiedevano in una cittadella fortificata che controllava strategicamente il porto e il Ponte di Tiberio, unico attraversamento del Marecchia lungo tutto il suo corso. Come scrive Luigi Tonini, in quel giro di mura turrite “fu secondo le antiche Scritture la Corte dei Duchi. Ne fa certi il vocabolo della Chiesa di S. Maria in curte, la quale fu prope Posterulam que pergit ad marem que vocatur de Ducibus“. Cioè la “Porticella che conduce la mare che chiamano dei Duchi”. Si doveva trovare presso l’odierna piazzetta Ducale, dove per inciso abitava proprio lo stesso Tonini nel palazzo avìto, che era stato dei Simbeni ed era sorto sulle fondamenta di un torrione romano: quello della Posterulam? La chiesa di S. Maria in corte, che era nell’omonima via tutt’ora esistente, fu sconsacrata nel 1808; il titolo della parrocchia passò alla chiesa dei Servi di Maria cui appartiene tutt’ora.

Palazzo Tonini in piazzetta Ducale

Dopo di che Rimini non ebbe più un Duca ma un Comes, Conte: i primi due Conti si chiamarono entrambi Rodolfo; e abbiamo ormai oltrepassato l’anno Mille. Il suo potere non è più assoluto e non si trovano cenni a una sua residenza nella Corte, né è chiaro se fossero di nomina papale o imperiale.

La cittadella ormai inutile e diroccata fu detta dal popolo Castlaza, “Castellaccia”, con il tipico suffisso in “-acc” proprio di costruzioni in rovina. Fino alle sopressioni napoleoniche, la Castalaza era sotto la giurisdizione di quattro parrocchie: S. Maria in corte, S. Maria della Neve (nell’area di piazza Ferrari), S. Vitale (in piazzetta Zavagli, che era il suo “campo”), S. Maria al mare (nell’omonima via). Si è notato come ancora nel basso Medioevo le residenze dei nobili fossero più numerose proprio nel quadrante “ducale”. Qui la Compagnia della Carità dà vita alla Confranternita dell’Aspettazione, l’unica composta di soli “gentil huomini”, che nel 1624 erige il suo oratorio dedicato a S. Filippo Neri. A fine Settecento vi avevano ancora i palazzi e ingenti proprietà immobiliari ben otto casate: Solieri, Ricciardelli, Simbeni, Pignatti, Sassatelli, Diotallevi, Fagnani, Brancaleoni.

Ma questo quartiere nato come fulcro militare e amministrativo, vivacemente sviluppato con attività marittime, artigiane e mercantili (i Veneziani vi avevano qui il loro “Canevone”, con oratorio di S. Marco e Confraternita dei SS. Marco e Sebastiano, la più numerosa della città), sembrava ormai conoscere una decadenza senza fine. E continuava a essere vittima privilegiata delle cicliche piene del Marecchia; ancora negli ammo Settanta del secolo scorso si vedevano case incredibilmente piccole con portoni incredibilmente spessi e rivestiti di ferro, a difesa dalla inondazioni.

Il Canevone dei Veneziani negli anni ’60 del Novecento (foto Davide Minghini – Biblioteca Gambalunghiana)

Qui c’era il grande Ospedale della Misericordia; era anche orfanotrofio e la sua chiesa lungo il Corso (cui nel 1814 sarà dato il titolo della sconsacrata S. Maria ad nives) aveva la ruota dove si abbandonavano i bambini. Ancora a metà del XX secolo qui era il dormitorio comunale dei senzatetto. Beffa della storia, quello che era stato il centro del potere pressochè assoluto dei Duchi e massima concentrazione di aristocratici, fra Ottocento e Novecento fu la culla dell’Anarchia riminese, poverissima e malsana che gareggiava in miseria il Borgo San Giuliano al di là del fiume, feudo invece dei Socialisti.

Quella che fu la Corte dei Duchi con i suoi vicoli strettissimi e le casette ancora inframmezzate da palazzi patrizi, indubbiamente è la parte della città dove più si può intuire qualcosa della Rimini medievale.

Ancora oggi sulla facciata della chiesa di S. Maria ad nives esiste la feritoia usata per introdurre, come dice l’iscrizione incisa su marmo, “Elemosine e Resti all’Hospitale M[isercordia]”