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26 dicembre 963 – A San Leo il re d’Italia si arrende all’imperatore


26 Dicembre 2023 / ALMANACCO QUOTIDIANO

A San Leo il 26 dicembre dell’anno 963 Berengario II re d’Italia di arrende a Ottone I il Grande, imperatore dei Romani, re degli Italici e dei Franchi Orientali, duca di Sassonia (nell’immagine in apertura da una miniatura di un manoscritto della Chronica di Ottone di Frisinga, 1200 circa). Ottone cingeva d’assedio San Leo dalla prima metà del maggio 961.

Un re d’Italia che si deve arrendere a un imperatore sassone: agli occhi dei ferventi patrioti dell’Ottocento, ecco un personaggio da tenere d’occhio. Un’ennesima vittima della “barbarie alemanna” allora incarnata dagli Asburgo dominatori dell’Italia. Tanto più che dopo Berengario, solo Arduino d’Ivrea riuscirà per poco a cingere la corona ferrea del regno d’Italia; poi furono solo sovrani germanici.

Purtroppo per la retorica risorgimentale, l’Itala di 900 anni prima era molto diversa, per non dire incomprensibile, attraverso le lenti del nazionalismo. E certo sorprendente anche ai nostri occhi. Sulla penisola, già ricca delle sue stratificazioni pre-romane, dopo i Goti si erano insediati i Longobardi: erano loro i veri fondatori del regno d’Italia. In Puglia, Basilicata e Sardegna c’erano i “Bizantini” e si parlava greco. Non solo la Sicilia era araba, ma i “Saraceni” si erano insediati in pianta stabile anche a Frassineto, presso St. Tropez in Costa Azzurra. Dopo aver saccheggiato senza pietà per tutto il IX secolo sia la costa tirrenica che quella adriatica (comprese Classe, Ancona, Monte Cassino e perfino la stessa Roma) si erano anndidati alle foci del Garigliano da dove erabi stati scacciati solo nel 915. Da est la pressione di Ungari e Slavi era costante. Fiction per fiction, molto più fedele L’armata Brancaleone di Mario Monicelli, come riconoscono anche gli storici.

Riesce difficile anche etichettare i contendenti come “l’italiano” e “il tedesco”. Non che tali concetti fossero loro del tutto estranei; tuttavia erano e si sentivano entrambi Franchi, sia quali discendenti nei titoli di Carlo Magno, sia per effettive genealogie. Berengario seppur “d’Ivrea” era il primo a essere nato in Italia in una nobile famiglia della Borgogna. L’aristocrazia italiana dell’epoca (cioè del Centro-Nord, conducendo il resto del Paese, come visto, esistenze separate) era di origine franca, sveva, bavara, borgognona, mentre i Longobardi erano tutt’altro che scomparsi e non pochi, chissà con quanto fondamento, accampavano antenati fra famiglie senatorie romane. Dal canto suo Ottone aveva certamente il disegno di assoggettare l’Italia dopo aver fatto lo stesso con la Germania, ma nell’ottica carolingia e senza mai perdere di vista le suggestioni di Roma imperiale.

Ottone il Grande alla dieta di Magdeburgo nel settembre 937 (Hugo Vogel, 1898)

Chi erano dunque quel re d’Italia che si sottometteva all’imperatore? All’epoca dell’assedio Berengario aveva più di 60 anni, Ottone una decina di meno. Età avanzate, in un’epoca in cui si poteva legalmente regnare a 12 anni e diventare papi a 18, come accadde a Giovanni XII.

Berengario, oltre a perdere il regno, ebbe anche una sfortuna postuma. Le sole fonti che narrano quelle vicende sono quelle dei suoi nemici. A iniziare da Liutprando vescovo di Cremona, il quale tuttavia non può negarne l’intelligenza politica: “Berengarius consiliis providus, ingenio callidus “, “calliditate suffarcinatus”. Gli rimprovera ambizione e avidità di denaro senza limiti. Ma nonostante lo definisca più volte “tiranno”, il suo ritratto non riesce a essere del tutto negativo.

Berengario era nato da  Adalberto I di marchese di Ivrea e Gisla, figlia del re d’Italia Berengario I del Friuli. La sua non era una dinastia regale e la questione della legittimità non cessò di perseguitarlo, nonostante le ascendenze materne nelle questioni successorie avessero un peso notevole. Contrariamente ai secoli successivi, prima del Mille la donna aveva ancora diritti importanti nella famiglie, dalle più umili a quelle imperiali. Infatti, dopo essere riuscito a farsi incoronare re d’Italia nel 950, a capo degli oppositori Berengario trovò Adelaide, 19enne e bellissima – a quanto si narra – vedova di re Lotario che era succeduto a Berengario I.

La Corona Ferrea dei re d’Italia

Per sistemare le cose, Beregario II chiese la mano di Adelaide per suo figlio Adalberto, ma lei non solo rifiutò, ma indomita si rifugiò in Svevia e chiese aiuto ad Ottone. E fu lui che la ebbe in sposa, non senza che nelle corti si dipingesse la vicenda secondo i canoni cavallereschi: il sovrano salva la vedova indifesa e debella l’usurpatore.

Ovviamente Berengario non si sentiva di usurpare un bel niente. Il punto centrale della contesa risaliva al 941, quando per la prima volta aveva incontrato Ottone. Era allora re d’Italia Ugo di Provenza. Sospettando, forse non a torto, che i sempre più potenti marchesi d’Ivrea manovrassero per spodestarlo, per prima cosa prima Ugo assalì il fratellastro di Berengario, Anscario, nel ducato di Spoleto dove si era insediato e lo uccise in battaglia. Poi diede la caccia allo stesso Berengario, che però riuscì a riparare in Svevia. Poco dopo fu raggiunto da sua moglie Willa, altra straordinaria protagonista di queste storie. Si disse che, incinta, avesse valicato le Alpi a piedi per ricongiungersi al marito.

Il cavaliere d’oro di Magdeburgo (XIII sec.) ritenuto una raffigurazione di Ottone I di Sassonia

Qui fu accolto “con onore” dal duca Ermanno, che lo condusse dal suo re Ottone. Questi lo ricevette più che benevolmente, colmandolo di doni. Accettò sì anche quelli di Ugo – “munera immensa” – che reclamava il fuggiasco, ma rifiutando categoricamente “l’estradizione”. Ugo doveva accontentarsi di non vedersi invaso il regno, per il resto se la sbrigassero fra loro.

Nei tre anni passati in Svevia ospite dell’imperatore, Berengario potè abilmente tessere la sua tela e rafforzarsi. Finchè, presi accordi con tutti i rivali di Ugo – compresi i Saraceni di Frassineto perchè non contrastassero un suo eventuale passaggio da quelle parti – scese invece per la val Venosta. Astutamente non cercò lo scontro immediato con Ugo, ma lasciò che il sovrano si indebolisse man man che la schiera dei fedeli si assottigliava. Fino al punto di chiedere lui stesso di abdicare e poter tornare in Borgogna purchè gli succedesse il figlio Lotario. Così avvenne, ma era Berengario a regnare di fatto, “nomine solum marchionem, potestate vero regem”, tanto da trattare lui con gli Ungari che minacciavano l’ennesima invasione. Il patto, o meglio l’estorsione, prevedeva una bella cifra da consegnare a quel popolo ancora pagano in cambio della pace. A quanto pare Berengario vi contribuì ben poco col suo. Al contrario, impose su tutti gli abitanti del Regno una tassa di un nummo argenteo a testa, senza escludere chiese, poveri e bambini: assicurandosi così una perenne impopolarità, arricchita dall’accusa di aver pure “fatto la cresta” sul riscatto. Tuttavia continuò ad attendere senza tentare alcun colpo di stato.

Ritratto ideale di Berengario II d’Ivrea

Il giovane re Lotario morì improvvisamente a Torino nel 950. “Berengario non perse tempo: poche settimane più tardi, quasi tutto fosse stato già predisposto in vista di una simile eventualità, si fece coronare re in S. Michele di Pavia, insieme col figlio Adalberto, il 15 dicembre. Aveva allora cinquant’anni. Non si attese nemmeno la solennità del Natale” (Paolo Delogu – Dizionario Biografico degli Italiani).

Le immediate voci di avvelenamento del sovrano per una volta pare fossero infondate. Però in Germania non la faccenda non quadrava. Sempre Delogu: “Assumendo la corona regia, il marchese si faceva eguale al re, il protetto al protettore. I rapporti tra Italia e Germania, sui quali forse Ottone aveva voluto porre un’ipoteca, entravano in crisi. E perciò la dignità regia di Berengario venne considerata subito dai Tedeschi un’usurpazione (Widukindo III, c. 7, p. 108), un frutto di superbia esaltata (Vita Mathildis posterior, c. 15, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, IV, Hannoverae 1841, p. 293)”. Tutto tornava a quel 941: cosa aveva promesso Berengario a Ottone in cambio della protezione ottenuta? Niente di impegnativo, secondo il primo, se non un ovvio patto di amicizia fra beneficiato e benefattore. Un vero atto di sudditanza feudale, sosteneva invece il secondo, che poteva prevedere sì la corona d’Italia per Berengario, ma solo se subordinata a quella imperiale di Ottone.

E poi c’era Adelaide. Lotario aveva lasciato il regno d’Italia in eredità a lei, detentrice quindi della legittima regalità, sebbene donna e ancora con un’unica figlia femmina. Per il diritto del tempo, che non valeva solo per i regni, avere un nonno materno con la corona ferrea e portare il suo nome non erano per Berengario titoli sufficienti a sopravanzarla nella successione. Di qui l’offerta di matrimonio con il figlio Adalberto, già associato al trono. Ma Adelaide rifiutò recisamente. E allora fu imprigionata, prima sul lago di Como, poi a Rocca di Garda, dove pare fosse crudelmente trattata da Willa. Ma riuscì a fuggire, rifugiandosi nella rocca di Canossa e poi rocambolescamente fino in Germania con in braccio la figlioletta Emma. E una volta in salvo invocò il soccorso di Ottone.

Nella cui famiglia fu addirittura una gara a chi intervenire per primo. Dopo i deboli tentativi, in concorrenza fra loro, di Enrico di Baviera e Liudolfo, rispettivamente fratello e figlio di Ottone, poche settimane più tardi arrivò l’imperatore in persona con un grosso esercito. Che non dovette mai combattere: il 23 settembre Ottone era a Pavia. Mentre Berengario e Adalberto erano scappati dalla città il giorno prima e abbandonati da tutti si erano rifugiati a San Marino, che si diedero subito a fortificare.

Ottone il 10 ottobre assunse il titolo di “rex Francorum et Langobardorum”, che già il 15 ottobre fu perfezionato in quello di “rex Francorum et Italicorum”; si presentò come successore di Ugo e Lotario e per sancirlo una volta per tutte alla fine del 951 sposò Adelaide vedova di Lotario, che forse si era fatta avanti per prima.

La Marche del Nord-Ovest nel X secolo

Ma Berengario non intendeva certo mollare. Dal Titano continuò a emanare decreti quale re legittimo e si rafforzò nel Ducato di Spoleto, mentre la Toscana e i duchi longobardi del meridione erano dalla sua parte. Così, quando l’anno dopo Ottone dovette rientrare in Germania con la sua sposa, tanto per cambiare dovendo fronteggiare la minaccia degli Ungari oltre che problemi interni, Berengario era ancora abbastanza forte da poter trattare un accomodamento con Corrado di Lotaringia, lasciato in Italia a condurre le operazioni imperiali.

Il giorno di Pasqua del 952 Berengario venne accolto dai duchi e dai più alti dignitari del palazzo ad un miglio dalla città regia di Magdeburgo. Dovette però subire l’umiliazione di attendere tre giorni prima di essere ricevuto da Ottone. Inoltre questi delegò la decisione a una Dieta, che si tenne il 7 agosto ad Augusta. “Qui Berengario e Adalberto giurarono fedeltà ad Ottone da cui furono investiti del Regno mediante uno scettro d’oro, restando escluse però le marche di Verona e del Friuli che furono affidate ad Enrico di Baviera. Il provvedimento, che coronava le aspirazioni di Enrico, assicurava ai Tedeschi i valichi delle Alpi orientali”.

La pace era costata cara, ora però nessuno poteva contestare la legittimità del re. E nemmeno quella delle sue vendette su chi aveva voltato gabbana. Quasi tutti eccelasiastici, perchè allora erano i vescovi a detenere il potere in gran parte delle città. Non furono pochi, anche se quasi nessuno perse la vita. Inoltre Berengario aveva capito che i regni non si tenevano difendendo a oltranza una capitale – che in Italia allora era Pavia – ma tenendo i punti chiave. Al nord vennero perciò fortificate l’isola di San Giulio d’Orta, l’isola Comacina, il castello di Garda e quello di Valtravaglia sul lago Maggiore. E per tenere il centro, si eressero gli arroccamenti nella già apprezzata San Marino e soprattutto a San Leo, il Mons Feretrius proverbiale per la sua inespugnabilità fin dall’età del Bronzo e già proficuamente munito da Goti, “Bizantini” e Longobardi.

L’isola di San Giulio nel lago d’Orta

Intanto anche a Roma la situazione era più fluida che mai. Il cuore della cristianità era stato negli ultimi anni completamente alla mercè di Alberico, figlio dell’omonimo duca di Spoleto e della celebre Marozia. Dopo aver fatto eleggere cinque pontefici e altrettanti cardinali, impose che alla sua morte sarebbe stato papa suo figlio Ottaviano. E così fu: morto papa Agapito nel 955, il 16 dicembre Ottaviano dei conti di Tuscolo divenne pontefice con il nome di Giovanni XII. Aveva 18 anni (secondo alcuni 16), età insufficiente per qualsiasi ordine sacerdotale. Ambiziosissimo, lascivo e ostile a Ottone, seguendo una tradizione famigliare che nella Città Eterna non voleva imperatori fra i piedi, dopo aver tentato invano di prendere Capua al coriaceo Pandolfo Testa di Ferro, rimase spaventato dalla marcia di avvicinamento di Berengario, che forse pensava di costringerlo a incoronarlo imperatore. Inoltre puntava al potere effettivo sull’Esarcato di Ravenna, esercitato invece dal re d’Italia. Giovanni XII cambiò allora idea su Ottone e lo chiamò in aiuto. 

Non che ce ne fosse bisogno. C’era già stato lo scontro fra i figli dei due nemici, avvenuto probabilmente presso Reggio Emilia. Liudolfo sconfisse Adalberto, ma morì mentre rientrava in Germania. Dopo l’appello del papa, la nuova spedizione in Italia non poteva più essere rimandata.

Ancora una volta, appena i tedeschi calarono dal Brennero i fautori di Bermegario si fecero di nebbia. Il re si rinserrò allora a San Leo, mentre sua moglie Willa presidiava l’isola d’Orta. Si trattava di tener duro: come sempre.

Ma anche Ottone era paziente e tenace. Nel febbraio del 962 Giovanni XII incoronò Ottone imperatore in Roma. Posto l’assedio all’isola d’Orta, la regina Willa si arrese dopo due mesi. Fu trattata generosamente e lasciata libera di andare dove volesse. E lei ne approfittò per raggiungere Berengario a San Leo e continuare la resistenza. 

L’inontro di Ottone I e papa Giovanni XII in una miniatura del ‘400

Intanto il papa si era già pentito di aver creato un nuovo cesare e si era alleato con Adalberto. Forse non tutto era perduto. Ma la morsa dei Sassoni questa volta non ebbe crepe, mentre i fedeli di Berengario si sottomettevano uno dopo l’altro. Adalberto era dovuto scappare dai Saraceni di Frassineto, poi in Corsica. L’invito a tornare in Italia che gli giunse da Roma finì per costare il soglio pontificio a Giovanni XII. Ottone assediò Roma e nonostante il papa in persona comparisse sulle mura indossando l’armatura, la città cadde quasi subito. Il 4 dicembre Giovanni XII fu deposto per spergiuro, ribellione e condotta immorale documentata da una lista interminabile di orribili accuse. Fra i testimoni, lo stesso imperatore che da quel papa era stato consacrato.

Due giorni dopo era pontefice il già protoscriniario Leone, alto funzionario laico che ricevette tutti gli ordini lo stesso giorno dell’incoronazione. E a nulla valse la ribellione dei romani nel gennaio successivo, subito soffocata nel sangue. Appena però Ottone lasciò Roma, Giovanni XII nello stesso 964 riuscì a rientrarvi mettendo in fuga Leone, facendo annullare la sua deposizione e infierendo sui suoi adepti: Azzone ebbe tagliata la mano destra, Giovanni il naso, la lingua e due dita. Ma morì tre mesi dopo per un colpo apoplettico dopo un coma di nove giorni. Il popolo disse però che il papa era stato sorpreso flagrante adulterio (in flagrante delicto) con Stefanetta, moglie dell’oste che l’ospitava; costui, in realtà Satana in persona, lo aveva scaraventato da una finestra.

Morte di papa Giovanni XII in un disegno tratto da Franco Mistrali “I Misteri del Vaticano o la Roma dei Papi”, vol.1, 1861

Le date di questi episodi non sono certe e alcune fonti collocano la resa di San Leo prima della deposizione del papa, senza precisare giorno e mese. Ma resta difficile pensare che senza il venir meno del sostegno di Giovanni XII Berengario si fosse deciso alla resa dopo quasi due anni di assedio. Non certo per “fame”, come sostengono alcuni: non solo la posizione di San Leo era imprendibile per gli eserciti di allora, ma la rupe disponeva di acqua, pascolo e terreni coltivati che avrebbero consentito qualsiasi resistenza. Ma se fuori non c’era più nulla, allora era finita per davvero. L’ormai ex re di d’Italia e la sua fedele Willa furono confinati in monastero a Bamberga, dove morirono dopo pochi anni.

Il figlio Adalberto, giunto a Roma su invito di Giovanni XII, quando questi fu deposto tornò con lui in Corsica. Al ritorno di Ottone in Germania, Adalberto rientrò in Italia per tentare un colpo di mano su Pavia, ma nel 965 fu fermato dal duca Burcardo di Svevia fra Parma e Piacenza e sconfitto. In battaglia cadde suo fratello Guido mentre l’altro, Corrado, si salvò con la fuga assieme a lui. Chiese allora il sostegno dell’imperatore di Costantinopoli Niceforo II Foca, ma constatato che le trattative non portavano a nulla, gettò la spugna. Si rifugiò nella Borgogna dei suoi avi presso i parenti di sua moglie Gerberga, dove morì ad Autun tra il 972 ed il 975.

Quanto ad Adelaide (Adalheid) alla morte di Ottone I nel 973, aiutò, pur con qualche contrasto, il figlio Ottone II nel governo dell’impero, stringendo una forte amicizia con la nuora Teofano, principessa bizantina. Venuto a mancare anche il figlio nel 983, fu reggente dell’impero fino alla maggiore età del nipote Ottone III. Quando essa fu raggiunta, Adelaide si dedicò alla carità e alla fondazione di conventi; coltissima – parlava quattro lingue – e devota, sostenne vigorosamente la riforma cluniacense. Negli ultimi anni si ritirò nel convento di Seltz, in Alsazia settentrionale, dove morì il 16 dicembre 999. Nel 1097 papa Urbano II la proclamò Santa.

Sant’Adelaide e Ottone I raffigurati sul Duomo di Meissen

Durante la lunga permanenza presso San Leo, certamente Ottone rilasciò privilegi e titoli ai suoi sostenitori. Quali siano autentici non è dato a sapere, fra i moltissimi che decine di nobili casate rivendicarono in seguito. Certamente falsi sono quelli datati 962 ed esibiti dai conti di Carpegna a favore del loro presunto avo Ulderico, che sarebbe sceso in Italia con l’imperatore. Ma non è da escludere proprio allora si siano formate signorie feudali che dureranno a lungo a cavallo dell’Appennino.

Un’altra conseguenza cruciale fu, come visto, la fortificazione di San Marino e San Leo. Qui probabilmente fu allora realizzata la seconda via d’accesso alla rupe, che oggi è l’unica esistente. La più antica, che saliva dal Marecchia e conduceva direttamente alla cittadella fortificata vescovile, scomparve con una serie di catastrofiche frane durante il Seicento rendendo inutilizzabile la Porta di Sotto. Inoltre si ritiene che la sommità della rupe, incombente proprio sulla Porta di Sopra, sia stata munita di rocca proprio in quell’occasione. In precedenza poteva esserci solo un torrione di avvistamento, plausibilmente nel punto più alto laddove sarebbe sorta la torre “della Regina”, bastando la natura del luogo alle esigenze difensive. E’ invece probabile che fosse già circondata di mura e con torre la sottostante cittadella vescovile. E non dovevano essere le prime fortificazioni. Gli ultimi scavi archeologici condotti da adArte presso piazza Buscarini hanno riportato alla luce due grosse muraglie sovrapposte e di epoche differenti ma entrambe pre-romane, la più antica datata all’età del Bronzo.

San Leo nel 1626 nel disegno di Francesco Mingucci a confronto con le situazioni attuali, prima e dopo la frana del 2014

Berengario ha lasciato anche una traccia curiosa: la storia, o leggenda, del suo tesoro. Si disse che venne ritrovato nel 1823. La voce fu però messa per iscritto solo nel 1847 dall’erudito Moroni: “Nel 1823 presso le vicinanze di San Leo in certi scavi sul Colle Acquiro, si trovò una gran cassa rinchiudente vasi e scettri d’oro, fornita di diamanti, vari candelabri, pezzi di stoffe d’amianto ornate d’oro e arnesi muliebri in gran numero. Si crede che questi effetti appartenessero a Berengario II che si difese per lungo tempo sul monte San Leo, prima di cadere nelle mani di Ottone I, essendovisi recato co’ suoi tesori”.

Come riporta Gaetano Dini, “la notizia fu rilanciata nel 1862 in un passo del libro di tal Dorilo Magarese ‘Il Tesoro di cui parlaron le Gazzette di Roma nella state del 1823, rinvenutosi in uno de’ Colli del Montefeltro detto Acquiro, probabilmente fece parte delle ricchezze di Berengario e della regina Willa, onde si favella’”.

Se non che tale “colle Acquiro” non risultava da nessuna parte. Però Pier Antonio Guerrieri da Carpegna nel ‘600 aveva scritto “del Castello già di Monte Aguino. Al riscontro di Monte Tassi sopra la destra riva del fiume Conca dalla parte verso il meridiano è un Monticello, sopra di quale anticamente era un castelletto nominato con l’istesso nome di Monte Aguino….”. Si è voluto identificarlo con un Monte Jacquino fra Monte Cerignone e Mercatino Conca, dove era esistito un castello. Ma del tesoro, nessuno ne ha saputo più nulla.

Il duomo di San Leo