28 maggio 1813 – Apre il Cimitero di Rimini
28 Maggio 2024 / ALMANACCO QUOTIDIANO
Il 28 maggio 1813 viene solennemente aperto il Cimitero di Rimini. Come racconta Carlo Tonini, «Fin dall’anno 1808 erasi proposto nel Consiglio comunale di erigere in Rimini il pubblico Cimitero, secondo una prescrizione o legge governativa».
In realtà la discussione dura da molto prima e in tutti i territori soggetti in qualche modo a Napoleone. Tutto aveva avuto inizio infatti con il cosiddetto editto di Saint Cloud (Décret Impérial sur les Sépultures), emanato dal Bonaparte appunto a Saint-Cloud il 12 giugno 1804. L’editto aveva stabilito che le tombe venissero poste al di fuori delle mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati, e che fossero tutte uguali. Nel nome dell’Égalité, si volevano così evitare discriminazioni tra i morti. Per i defunti illustri, invece, era una commissione di magistrati a decidere se far scolpire sulla tomba un epitaffio. Questo editto aveva quindi due motivazioni: una igienico-sanitaria e l’altra politico-filosofica.
Vi erano poi le reminiscenze classiche, a quell’epoca al culmine della loro rivalutazione: anche gli antichi romani seppellivano solo fuori le mura. Ma con il Cristianesimo si era preso a deporre i defunti all’interno delle chiese o almeno il più vicino possibile a un luogo consacrato, sia che si trovasse dentro le città che al loro esterno.
Il provvedimento fu esteso al Regno d’Italia dall’Editto della Polizia Medica, promulgato sempre da Saint-Cloud, il 5 settembre 1806, scatenando un intenso e «complesso dibattito pubblico che già a partire dal periodo stesso della Rivoluzione, ne condannava gli eccessi, soprattutto per quanto concerne le fosse comuni, auspicando un almeno parziale recupero della religion des tombeaux».
Ugo Foscolo, come molti altri scrittori contemporanei, si scagliò contro questo editto con il carme Dei Sepolcri, avendo cambiato la sua iniziale opinione meccanicistico-materialista (che quindi giustificava il provvedimento) dopo una discussione con Ippolito Pindemonte, già impegnato nella composizione dei ‘Cimiteri’ sullo stesso argomento e fieramente contrario all’editto napoleonico.
Ma vediamo, sempre con Carlo Tonini, come procedettero le cose a Rimini.
«Da prima si deliberò di farlo su alle Grazie nel luogo del soppresso convento de’ Minori Osservanti. Ma perché tale scelta, come cattiva, non piacque ai cittadini, (né poteva in realtà piacere un campo mortuario in vetta alla più deliziosa delle nostre colline) si determinò poscia di scegliere a tale effetto un luogo posto presso le Celle a settentrione della città. Dopo lunga e varia opposizione di quanti erano avversi al cimitero, si dovette effettuare la disposizione governativa; e finalmente in questo anno 1813 acquistatosi il terreno per cinque tornature, si formò in quadro, si prosciugò essendo paludoso, si cinse di muro e sopra l’arco, o porta d’ingresso, vi fu scritto:
“Ahi! misero teatro! ahi! fasto umano!”».
Per lunghi secoli la zona intorno all’oratorio (Cella) dei Cruciferi era già stata in qualche modo destinata alle sepolture. La Confraternita dei Cruciferi almeno dal XII secolo si era infatti prefissa il compito di dare una tomba agli ultimi degli ultimi: i condannati a morte, i cui corpi, spesso smembrati ad ammonimento dei reprobi e a soddisfazione delle loro vittime, venivano esposti in un luogo di massima visibilità per il viandante. Come a Rimini il bivio dove si diramano due Viae romane, l’Emilia e la Popilia (o Romea).
Prosegue il Tonini: «Una circolare del podestà Nanni ai Parrochi e Fabbricieri della città e de’ borghi, data il 15 maggio, ne fissava al primo di giugno l’esecuzione, prescrivendo le regole e i modi da osservarsi nelle tumulazioni. A’ 28 di maggio fu aperto colle cerimonie religiose dal Vescovo Ridolfi al suono flebile delle bande musicali e col concorso di gran moltitudine di popolo”.
“Il primo dei nobili ad esservi sepolto fu, secondo il Zanotti, Lodovico Fagnani: della plebe lo stesso cronista ne enumera pure alcuni, che noi per brevità tralasciamo. E questa fu l’origine del Cimitero nostro, che, sebbene ampliato ed abbellito, pure è quel medesimo che tuttora abbiamo».